Quando hanno saputo dell’arresto del superlatitante Matteo Messina Denaro, hanno provato «gioia mista a pianto». La mamma e il fratello del piccolo Giuseppe Di Matteo, il 12enne strangolato e sciolto nell’acido quasi due anni dopo essere stato rapito, proprio per ordine del boss, oggi rivivono «il ricordo di quel periodo orrendo», come ha spiegato Nicola Di Matteo all’AdnKronos. «Ringrazio le forze dell’ordine e la magistratura, che ci sono sempre stati accanto. Lo Stato ha i suoi tempi ma vince sempre».
Il fratello di Giuseppe Di Matteo non ha alcuna parola di perdono per Messina Denaro: «È una cosa impensabile davanti alle atrocità che hanno imposto a Giuseppe. Non si può perdonare una cosa del genere. Giuseppe era un ragazzino, impensabile il perdono. Adesso deve soffrire come mio fratello». E ancora: «Ho letto che è malato. Mi auguro che possa vivere il più a lungo possibile per avere una lunga sofferenza, la stessa che ha imposto a mio fratello, un ragazzino innocente».
Nicola Di Matteo chiede che adesso «si faccia luce anche sulle coperture» che hanno consentito al boss mafioso una latitanza lunga 30 anni. «Speriamo che tutta la verità possa venire a galla. Questi criminali non si allontanano mai troppo dai loro territori in cui possono contare su una fitta rete di persone pronte a proteggerli».
Giuseppe Di Matteo era figlio del pentito Santino: il 14 novembre 1993 stava uscendo dal maneggio dove era andato a cavallo e fu raggiunto da un commando di mafiosi vestiti da poliziotti che, dicendogli che lo avrebbero portato dal padre, lo convinsero a seguirli.
Il rapimento, deciso da Matteo Messina Denaro, Leoluca Bagarella, Giuseppe Graviano e Giovanni Brusca, doveva servire da monito a quegli appartenenti al commando della strage di Capaci che stavano collaborando con la giustizia. Il 12enne fu ucciso a San Giuseppe Jato l’11 gennaio 1996. Il suo corpo non fu mai ritrovato, perché disciolto in acido nitrico.
Il pentito Gaspare Spatuzza, chiedendo perdono per quell’omicidio atroce, in aula riferì: «All’inizio il bambino urlava: “Papà mio, amore mio”. Poi l’abbiamo legato come un animale e l’abbiamo lasciato nel cassone. Lui piangeva, siamo tornati indietro perché ci è uscita fuori quel poco di umanità che ancora avevamo. Ci chiamò dicendo che doveva andare in bagno, ma non era vero. Aveva solo paura. Allora tornammo indietro per rassicurarlo e gli dicemmo che ci saremmo rivisti all’indomani, invece non lo rivedemmo mai più».