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Fine dining e birra, nozze ancora lontane

Come due pianeti dalle eccellenti fortune, il mondo della ristorazione e quello della birra girano vicini, si osservano, talvolta si intersecano, ma soprattutto rimangono a distanza. Nella galassia sempre più espansa del food&beverage, gli incontri fortunati e di tendenza cambiano a grandissima velocità, alcuni diventano dei classici, altri proprio non riescono a fare match. È il caso del fine dining con la birra. Le tavole più raffinate lasciano spazio a vini, spirits, infusi, tè, ma con la bevanda a base di malto e luppolo fanno ancora fatica. L’elenco dei motivi è piuttosto lungo e pare che le responsabilità siano equamente condivise: un certo scetticismo dei ristoratori – e dei loro responsabili del beverage – nei confronti di birrifici e mastri birrai non manca, così come questi trovano difficile far passare il concetto di prodotto artigianale – e dunque anche costoso – a chef e ristorazione gourmet. Ovviamente non è così ovunque: Stati Uniti e Belgio in testa da anni hanno sdoganato il mondo craft beer, facendolo entrare dalla porta principale dei ristoranti di grido. In Italia invece la birra è ancora vista come un prodotto destinato ai pub, al consumo disimpegnato, a momenti en plein air (mare, sport, scampagnate, per capirci.) Insomma, le premesse di una buona relazione ci sono, ma convolare a nozze pare cosa, almeno per il momento, ancora complicata.

La tradizione vinicola batte tradizione birricola

È un po’ come la storia di Davide e Golia, qui, però, con esito ancora incerto. Il vino domina nei ristoranti e lo spazio che rimane è spesso marginale. Lo sa bene Andrea Rogora, mastro birraio di Orso Verde, il birrificio di Busto Arsizio, in provincia di Varese, che pur vivendo un momento di crescita  – nuovi impianti e nuova capacità produttiva – trova nel fine dining diversi ostacoli. “Partiamo dalla bottiglia – spiega Rogora – il formato 0,33 cl non piace alla ristorazione. L’ideale sarebbe da 0,75 cl ma è un investimento importante per il birrificio. Noi abbiamo puntato su una via di mezzo, con lo 0,50 cl per presentarci su tavole un po’ più importanti, nonché in pizzerie gourmet, dove si lavora bene anche alla spina, ma parliamo comunque di un prodotto realmente artigianale, filtrato e non pastorizzato”. Una posizione di subordinazione che si fa sentire senza dubbio, eppure qualcosa sta cambiando anche nel fine dining. Salvatore Matarazzo, sommelier dello stellato Re Santi e Leoni di Nola, in provincia di Napoli, ha usato la carta dell’analogia tra vino e birra, partendo dal trend dei fermentati. “Nel pairing amo spaziare su fermentati di vario tipo e la birra è una bevanda che uso frequentemente”, racconta Matarazzo. “Mondo vasto, complesso e stiloso, come amo definirlo. Nell’ultimo periodo sono affascinato dalle birre acide che in Belgio si differenziano per i diversi stili come Lambic, Gueze e Fruit Lambic. Poco tempo fa ho conosciuto la cantina brassicola Cà del Brado: eseguono fermentazioni e affinamenti di mosti e malto con maturazioni in legno di diverse tipologie. La loro è una visione tradizionalista che sperimenta e innova e ovviamente l’uso del legno rimanda al mondo del vino”. Collega di Matarazzo è Danilo Tacconi, responsabile beverage per il ristorante giapponese Iyo di Milano (una stella Michelin), esperto di sakè, innamorato dei vini di Borgogna, ma che ha detto sì alle birre in carta. “Ne ho sei e cambiano ogni quattro mesi. Attingo dai microbirrifici e sono in gran parte birre aromatizzate o bitter perché ben si sposano alla cucina che proponiamo. Certo non mancano i più tradizionalisti che ordinano la classica Asahi (birra giapponese, ndr), ma si sta ampliando la clientela che sceglie la combo birra/sakè al posto del vino. Inoltre ho introdotto le lattine da 0,33 cl, così da poter fare pairing diversi”, conclude Tacconi.

La scarsa cultura brassicola tra gli operatori dell’alta cucina

Gli esempi di incontri virtuosi non mancano dunque, ma la presenza della birra nell’alta ristorazione continua a essere poco organica e soggetta più a trend che a logiche legate alla qualità. In primis, stando alle criticità menzionate dagli addetti, manca la formazione. Nel campo Laura Boesso, marketing manager di Accademia delle Professioni, polo didattico con sede a Padova, è a suo agio nel mondo delle birre. “Come Accademia abbiamo due corsi, uno dedicato ai Mastro Birrai, l’altro ai Beer Sommelier. In dieci anni abbiamo formato mille mastro birrai, di sommelier invece un centinaio. La prima figura è più attrattiva, la seconda trova meno riscontro nel fine dining. Non a caso vengono da noi diversi operatori dell’alta ristorazione per accrescere le loro conoscenze. Manca lo storytelling da portare in tavola, perché l’idea della birra è ancora molto legata alla cultura dei festival”. Uno dei docenti del corso è Roberto Pepe, FB manager del Rosapetra Spa resort di Cortina, che nella birra crede così tanto da aver ideato una linea dedicata alla “perla delle Dolomiti” (prossima protagonista delle Olimpiadi invernali). “Il ragionamento è stato: perché offrire birre commerciali in un hotel a 5 stelle? – spiega Pepe – Abbiamo così pensato a una produzione ‘nostra’, realizzata dal Birrificio Artigianale Veneziano (Bav) con due referenze, una Scotch Ale e una Pilsner dove la grafica delle etichette richiama i tronchi di legno, nonché il legame tra Venezia e le sue briccole e Cortina con i suoi boschi. Di base sto lavorando a una carta del beverage in grado di ospitare almeno una ventina di birre, tra italiane e straniere, tutte a luppolo fresco, quindi più difficili da conservare, ma che danno più soddisfazione anche nel pairing”.

Ma è tutta colpa del fine dining? Pare che in cima alla lista delle questioni da affrontare ci sia ancora la mancanza di dialogo tra i due mondi. Conferma che arriva, tra gli altri, da Maurizio Maestrelli, giornalista birrario. “Da un lato ci sono gli studenti dei corsi per Sommelier a cui la ‘faccenda birra’ viene liquidata in un paio di ore di lezione, dall’altra – se si esclude il marketing dell’industria – il mondo della birra artigianale in particolare non ha forza comunicativa e rimane legato a canali indipendenti, che rimangono sottotraccia. In passato l’eccezione l’ha fatta Teo Musso con l’azienda Baladin, ma anche lui non ha avuto una forza di penetrazione così importante nel fine dining – prosegue Maestrelli -. A livello di gusto, la birra ha un potenziale di pairing maggiore di quello del vino, ha spesso un grado alcolico più basso, il che porta a finire la bottiglia con facilità, ma paga lo scotto di una cultura enologica preponderante e anche di una etichetta di ‘bevanda da giovani’ (nonostante i bevitori di craft beer siano i 40-50enni). Al settore brassicolo invece imputo il fatto di non essere sempre in grado di fornire birre affidabili e dalla costanza qualitativa certa. È normale poi che il ristoratore finisca per rivolgersi ai grandi gruppi produttori”.

I costi di marketing e comunicazione per microbirrifici e brewbup sono spesso impensabili in un’economia di scala che vede produzioni che non superano i 10mila ettolitri l’anno. Chi ci ha creduto e ci ha investito con intelligenza però ha vinto. Almeno questo è il caso di Birra 32 Via dei birrai, birrificio di Pederobba, in provincia di Treviso, da tremila hl ogni anno: solo bottiglie da 75 cl, niente vendita di fusti, poche referenze – otto – e grafica accattivante. Questa sembra essere stata la ‘formula magica’ secondo Loreno Michielin, uno dei tre soci dell’azienda veneta. “Tre anni fa ci siamo messi pure a fare le bottiglie magnum visto che ce le chiedevano. È la prova che se, da birraio, offri attenzione alla ristorazione, questa ti ripaga. Io che mi occupo del commerciale, in questi anni, mi sono seduto a diversi tavoli, ho assaggiato con i cuochi, pensato agli abbinamenti e ho lavorato su una bella bottiglia da portare in tavola. Dico sempre che il mio peggior concorrente è chi fa birre cattive, soprattutto nel mondo di quelle artigianali”. Il vecchio adagio ‘se Maometto non va dalla montagna…’ pare quindi funzionare anche nel mondo della birra che punta al fine dining. E pare essere anche il mantra di Domenico De Conti, responsabile vendite Craft beer per Cuzziol. Diplomato alla Doemens Academy di Monaco e miglior sommelier 2020 per la rivista Birra&Sound, De Conti da anni porta le sue competenze all’interno dell’alta ristorazione con corsi di degustazione: “Creo cultura dando valore a quello che vendo. Lo scoglio principale rimane l’idea che non sia elegante abbinare la birra a piatti sofisticati, anche come ingrediente. Rimaniamo piccoli consumatori, con circa trenta litri pro capite e le donne sono ancora poche (quattro su dieci). Le realtà micro non superano il 3% in Italia per una produzione media che si assesta tra i 500-600 ettolitri. Puntare sulle piccole realtà poi comporta anche dei rischi. Penso allo stoccaggio del prodotto: le birre artigianali di altissima qualità vanno stoccate al freddo, perché il lievito non filtrato è soggetto a rifermentazione e non sono tanti i locali in grado di gestire queste cose. Sono birre che hanno shelf life di appena 40 giorni, anche per questo costano tanto”.

Tra i due litiganti..

Il mastro birrario Giovanni Faenza e il fratello chef Matteo hanno risolto il problema a monte, ovvero facendo dialogare il birrificio di famiglia, Ritual Lab, con il ristorante ‘di casa’, Mogano, entrambi a Formello in provincia di Roma: “Crediamo che il filo conduttore tra birra e cucina sia la tecnica della fermentazione, onnipresente da Mogano dove quotidianamente vengono fermentate verdure, grani di kefir e alimentato il lievito madre”, spiega Faenza. “Fondamentale poi l’utilizzo dei sottoprodotti del processo brassicolo: la panificazione si fa con le trebbie, le frollature di carne e pesce con i malti e il mosto dona texture e aroma alle nostre salse. Serviamo anche acque luppolate con piccole entrée che aiutano a preparare lo stomaco ai pasti. Le nostre birre sono state selezionate da Antonino Cannavacciuolo, da Heinz Beck, dal danese Mota. Qui da noi invece puntiamo sul pairing degustazione, solo bottiglie da 33 cl che raggiungono anche i 14 gradi alcol e quindi vanno bene anche condivise. Nessuno ha la meglio sull’altro, Matteo studia un piatto in base a una birra o lui ci ispira per una nuova etichetta”.

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