C’è chi lo chiama il #metoo del parto, un movimento che sostiene i diritti delle donne nella maternità e nel parto e vuole eliminare la violenza ostetrica. L’evento scatenante è la tragedia all’ospedale Pertini di Roma, la morte di un neonato, soffocato dopo l’allattamento mentre la madre, esausta, si era addormentata. Sono arrivati migliaia di messaggi di donne che hanno raccontato esperienze di soprusi, piccoli o grandi, e umiliazioni. L’attivista Francesca Bubba sta lavorando insieme a un gruppo di esperte a una legge sulla violenza ostetrica.
Agli account social e all’indirizzo e-mail della campagna che ha come hashtag #ancheame sono arrivate decine di messaggi come questi:
«Allatta, allatta, allatta! Poi hai un problema e non sanno minimamente come aiutarti (dicono sempre che va tutto bene e non c’è alcun problema). Il bambino non prende peso e non ti aiutano a integrare il latte artificiale. La mamma è esausta e non ti sostengono nello smettere di allattare».
«La mia violenza ostetrica non riguarda il parto, ma l’infertilità. Dovevo fare dei tamponi indispensabili per accedere ad una procedura di fecondazione per cui ero in lista d’attesa da mesi e quando sono arrivata a farli mi sono accorta che per errore del Centro nella redazione dell’impegnativa ne mancava uno. Mi sono messa a piangere, perché erano mesi che aspettavo e seguivo uno stile di vita maniacale per quel momento e avrebbe potuto essere rimandato di mesi solo per un errore. L’ostetrica che doveva farmi i tamponi è andata a far prescrivere anche questo ulteriore da un ginecologo di turno però ha trovato necessario dire ad una persona infertile “certo che se reagisce così non riuscirà mai ad avere un bambino”. Ha fatto tanto male».
«Depressione post parto da cui ne sto uscendo solo ora (dopo 11 mesi), costantemente giudicata e svalutata dal mio compagno dalla suocera e anche dai miei genitori e conoscenti “ma cosa ti lamenti se ce la fanno le altre puoi farcela anche tu” “ma dai che ti passa basta andare a camminare e fare spooort” “sei una madre ora quindi è normale è giusto che tu non abbia più tempo x veder i tuoi amici o dormire. Queste cose le farai tra qualche anno”. Terrificante. Prenderei tutti a schiaffi».
Sono tre storie diverse nei tempi e nelle forme, ma tutte collegate alla maternità. «Dopo la tragedia del Pertini», spiega Francesca Bubba, «ho sentito proprio la necessità di costruire una misura volta ad arginare ed eliminare il fenomeno della violenza ostetrica. Ho pensato all’esigenza di regolamentare tutti gli spazi legati alla maternità sulla base di criteri specifici. Per scardinare l’equazione sacrificio-amore, che investe il materno da secoli, c’è bisogno di un cambiamento culturale per cui serve un tempo lunghissimo che non abbiamo più». Un team di professioniste ed esperte sta lavorando alla proposta. Due Università italiane sono state contattate per fare ricerca statistica sul tema visto il vuoto di dati.
«Che cosa è la violenza ostetrica? Un insieme di comportamenti abusanti che violano la personalità, la volontà e l’autodeterminazione dei corpi gestanti. La violenza ostetrica priva la persona di una esperienza serena e personale del parto, del travaglio e del post partum». In questa definizione sono inclusi la carenza assistenziale, le umiliazioni verbali, le coercizioni, tramite anche il linguaggio del corpo, da parte del personale sanitario, la disinformazione e misinformazione legata anche agli spazi dedicati al pre parto, l’uso di routine come episiotomia (procedura chirurgica per facilitare il passaggio del feto), la negazione del parto cesareo e della parto-anelgesia, l’esecuzione di procedure senza consenso e senza averne discusso con la paziente. «Sta in quest’ultimo punto anche l’infantilizzazione della paziente, il parlarle me se fosse una bambina e non una persona adulta in grado di comprendere e gestire cosa può accadere al suo corpo».
A questo si aggiungono il mancato supporto fisico e psicologico, la violazione della privacy, anche con la presenza di studenti senza consenso, o divulgazione di particolari sanitari o personali. «Abbiamo trovato interesse in ambienti universitari e anche sanitari probabilmente sull’onda di quanto accaduto all’ospedale Pertini. Presenteremo la proposta in Cassazione, ma stiamo contemporaneamente preparando una modifica alla carta dei diritti della partoriente per allinearla al periodo storico che viviamo».
In discussione c’è anche il rooming in, che porta tenere sempre vicino alla madre il figlio neonato. «Il rooming in è una formula che ha certamente lati positivi, ma sono gli unici descritti, e non si parla del resto per poi appellarsi al fatto che sia stata la mamma a sceglierlo. Non si parla di quanto nei corsi preparto ti inculchino violentemente il fatto che tenere costantemente il bambino attaccato al tuo corpo, anche se esausto, sia indispensabile per stabilire un rapporto con il bambino. Veniamo da un ambiente preparto dove si perpetua questa è la narrazione: ci dicono che è l’unico modo per stabilire un legame e noi i bambini le teniamo anche se siamo esauste».
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