Martedì prossimo, la Corte dei conti presenterà la relazione semestrale al parlamento sullo stato di avanzamento del PNRR, cioè gli esborsi effettivamente sostenuti. Oggi il Sole, che ha preso visione delle quasi 400 pagine della relazione, illustra i numeri di un pachiderma piantato in mezzo alla strada. Lentezze procedurali, strutturazione dei processi di spesa, drammatico ma non imprevedibile deficit di competenze nella pubblica amministrazione, soprattutto al Sud. Tutti elementi che frenano gli esborsi e la loro auspicata capacità espansiva, e si accingono a riprodurre su scala ben maggiore gli andamenti tradizionalmente desolanti dei nostri programmi di spesa collocati entro la cornice del bilancio ordinario europeo settennale.
La spesa effettivamente realizzata allo scorso 31 dicembre è di 22,044 miliardi di euro, ed è salita al 13 marzo scorso a 23 miliardi, legati a 107 (105 investimenti e 2 riforme) delle 285 misure elencate dal PNRR. Il tasso di realizzazione è sin qui al 12% del totale delle risorse messe a disposizione entro il 2026. Rispetto alla tabella di marcia, siamo a circa la metà degli esborsi. Ma le cose si fanno ancora più cupe se andiamo a depurare tali spese dalle componenti automatiche legate a crediti d’imposta che vengono “tirati” dal settore privato, quindi senza intervento di programmazione e realizzazione delle pubbliche amministrazioni. Ad esempio, i crediti d’imposta legati a Industria 4.0 e al Superbonus edilizio 110%, per la parte spostata nel PNRR.
Se depuriamo il dato di spesa già sostenuta da tali componenti automatiche del settore privato, arriviamo a un esborso indotto dalla pubblica amministrazione di poco più di 10 miliardi su un totale di 168, un terribile 6%. Nella Missione 6, dedicata alla Salute, la spesa è praticamente assente (79 milioni su 15.626, quindi lo 0,5%), nella Missione 5 su Inclusione e coesione si arriva a 239 milioni (1’1,2% dei 19,851 miliardi di budget) mentre su Istruzione e ricerca (Missione 4) si arranca fino al 4,1% (1,273 miliardi spesi su 30,876). Dove le cose vanno meglio è nella Missione “mobilità sostenibile”, ma solo perché sono stati svuotati i cassetti dei progetti ferroviari, che erano pronti per l’avvio e la cantierizzazione da tempi precedenti il Recovery Fund. Non stupisce quindi che la spesa del PNRR abbia finora viaggiato sulle grandi stazioni appaltanti pubbliche, che hanno sin qui assorbito il 39% delle risorse.
La spesa dovrebbe accelerare quest’anno e toccare una velocità di crociera di 40-45 miliardi annui nel 2024-25, ma neppure il governo fa mostra di credere a questo scenario, visto che continua a tentare di chiedere a Bruxelles non meglio specificate agevolazioni di tempi e modi. Ricordate come iniziò? C’è troppa inflazione e troppo poco tempo, dovete darci altri soldi oppure allungarci i tempi, dicevano i nostri eroi in campagna elettorale.
Scordando o fingendo di scordare che l’unica cosa da fare in questi casi è sfrondare il numero di progetti sognati, e andare oltre. Ammesso e non concesso di avere capacità di realizzazione delle opere. Che tuttavia pare latitare. Poi è subentrata una nuova meravigliosa idea: prendiamo tempo dalla porta di servizio, spostando parte dei fondi del PNRR alla programmazione pluriennale ordinaria, e così recuperiamo un paio di anni. Se solo fosse così facile. Peraltro, c’è il problema che nei fondi della programmazione ordinaria serve il co-finanziamento nazionale, e sono soldi veri. Da qui, pare (ma la cautela è d’obbligo, potrebbe non essere così) si sia sviluppato un negoziato sotterraneo con Bruxelles, dove noi italiani tratteniamo la ratifica del MES (il nostro irrazionale spauracchio, ormai tale da scatenare enuresi notturna nei nostri eletti), sin quando “gli ottusi burocrati” e soprattutto i non meno ottusi capi di stato e di governo del resto della Ue acconsentiranno a farci scomputare dal deficit la quota di co-finanziamento nazionale.
Che, sulla programmazione ordinaria, sarebbe un sontuoso 0,23% medio annuo di minore deficit. Come se i mercati non fossero in grado di accorgersi della presenza di un deficit “sotto la linea” che viene chiamato Giovanni anziché deficit. E vabbè. Poi ci sono i problemi di personale degli enti locali, soprattutto al Mezzogiorno, per i quali si cercano soluzioni tampone e assunzioni aggiuntive a tempo determinato.
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