Harry lo mette in chiaro fin da subito, nero su bianco, sulla copertina e appena sotto la foto del suo viso. Spare è il titolo del suo libro di memorie, la raccolta autobiografica della sua esperienza di vita fino a qui. L’infanzia a palazzo, il trauma della morte di Diana, l’adolescenza poco ordinaria e l’incontro con Meghan Markle, la donna che ha cambiato la sua storia (e anche quella della sua famiglia).
Fin dalle prime pagine del libro si chiarisce il significato della parola inglese, scelta attentamente da Harry come titolo per spiegare la sua condizione di secondo. «Spare, letteralmente “ruota di scorta”, “riserva”, richiama il modo di dire inglese riferito alle dinastie regnanti, “An Heir and a Spare” (un erede e una riserva), e in questo caso indica quindi il fratello minore dell’erede designato al trono».
Basta scendere di poco, verso pagina 26, per capire meglio cosa prova il principe Harry in questo ruolo di erede-non-erede: «Willy, che ha due anni più di me, era l’Erede, io la Riserva». Non si trattava solo del modo in cui lo chiamava la stampa, spesso era la definizione che gli davano «papà, mamma e il nonno, e persino la nonna». Quella definizione, l’Erede e la Riserva, non era tanto un giudizio, come sostiene Harry, ma lasciava poco spazio alle interpretazioni. «Io ero l’ombra, il sostegno, il piano B», scrive il principe in Spare riferendosi al fratello William.
A quanto pare, non si trattava di un rimpiazzo formale, qualcuno a cui affidare il ruolo di vice alla Corona, quanto piuttosto un vero e proprio «pezzo di ricambio»: «Ero venuto al mondo nel caso fosse accaduto qualcosa a Willy, ero stato convocato come rinforzo, distrazione, diversione. Magari un rene, una trasfusione di sangue oppure un frammento di midollo spinale. Tutto questo mi era stato esplicitato da quando ho memoria, e ribadito regolarmente da allora».
Spare sembra una raccolta di traumi «reali» che il principe Harry ha accumulato negli anni a palazzo. Episodi, aneddoti, momenti e situazioni in cui il «complesso del secondogenito» gli ha impedito di legare con la sua famiglia. Tra questi, il duca di Sussex ha riportato anche una frase dell’allora principe Carlo, a cui sembrerebbe dedicata la rabbia di questo titolo: «Avevo vent’anni quando ho saputo della presunta frase che papà avrebbe detto a mamma il giorno della mia nascita: “Splendido! Adesso mi hai dato un erede e una riserva: il mio lavoro è finito”. Probabilmente era una battuta. Ma, d’altro canto, si dice che pochi minuti dopo essersi esibito in questo siparietto di comicità mio padre abbia incontrato la sua amichetta. Conclusione: spesso scherzando si dice il vero».
La posizione di Harry, in quegli anni, non cambia. Si sente pedina di un gioco che non può controllare: «Io non mi sentivo offeso, non provavo assolutamente niente. La linea di successione è come il meteo, la posizione dei pianeti o l’alternarsi delle stagioni. E chi aveva il tempo di crucciarsi per cose che tanto non si potevano cambiare?». Essere un Windsor significava capire quali erano le verità immutabili: comportamenti, relazioni, commenti. Tutto doveva rispettare il filtro della Corona. E questo Harry lo capiva, almeno in parte. «Significava assorbire i tratti fondamentali della propria identità, sapere per istinto chi eri, il che si riduceva in sostanza a essere per sempre il sottoprodotto di chi non eri», scrive il duca.
«Io non ero la nonna. Non ero papà. Non ero Willy. Ero terzo nella linea di successione dietro di loro. Almeno una volta nella vita, qualsiasi ragazzo o ragazza immagina di essere un principe o una principessa. Quindi, ruota di scorta o meno, non era poi così brutto. E aggiungo: rimanere fermamente dietro le persone che ami non è forse la definizione dell’onore?»