Il Chianti Classico non è solo una delle denominazioni italiane più famose al mondo: è tra le prime ad avere investito fin da tempi non sospetti nella conduzione biologica e nella tutela della biodiversità.
Fra i trend agricoli degli ultimi anni, quello della conversione alla coltivazione biologica è sicuramente uno dei più positivi. Ad oggi, il 18% della superficie vitata nazionale è certificata biologica, una scelta che vede primeggiare tre regioni: Sicilia, Puglia e Toscana. In quest’ultima, la denominazione del Chianti Classico da sola può rivendicare la certificazione biologica per circa il 54% della sua superficie. Tra i pionieri del biologico, e dello stesso Chianti, la famiglia Stucchi Prinetti a Badia a Coltibuono. “Per me il percorso è iniziato alla fine degli anni ’80, quando eravamo davvero in pochissimi a fare questa scelta”, racconta l’AD dell’azienda, Roberto Stucchi Prinetti. “Siamo arrivati a una gestione biologica negli anni ’90 e alla certificazione di tutta l’azienda (70 ettari a vigneto e 20 a uliveto) nel 2000. Ma già alla fine degli anni ’90 le aziende che lavoravano nel biologico erano un discreto numero, anche se non era facile: perfino i consulenti che potevano aiutarci erano pochi”.
Il Biodistretto del Chianti Classico, una realtà dinamica
La condivisione di problemi agronomici come gli attacchi di flavescenza dorata indusse a un certo punto alcune aziende a unire le forze, e nel 1995 nacque l’Unione Viticoltori di Panzano in Chianti, cui negli anni successivi seguirono i biodistretti di Greve e Gaiole. Questi ultimi nel settembre del 2016 si unirono nel Biodistretto del Chianti Classico, un’associazione di cui oggi è presidente lo stesso Stucchi Prinetti. “In questo momento – spiega – stiamo lavorando al passaggio a distretto biologico ufficialmente riconosciuto dalla Regione. Finora infatti il Biodistretto ha operato in regime di volontariato. Il riconoscimento ufficiale invece ci permetterà di collaborare in maniera ancora più articolata con gli enti pubblici e di sedere ai tavoli regionali per decidere anche di finanziamenti. Sembra una cosa solo formale, burocratica, in realtà ci darà una spinta in più per raggiungere i nostri obiettivi”. Questi ultimi sono tanti e articolati, perché non riguardano solo la produzione viticola ma più in generale l’agricoltura (con il recupero di terreni abbandonati e la reintroduzione di altre coltivazioni), il turismo, la formazione, la comunicazione. Un distretto bio, insomma, concentrato non più solo sul vino e sull’olio d’oliva, ma che guarda al mondo del Chianti Classico in maniera più completa e, forse, anche più sostenibile.
Ma cosa significa per un’azienda del vino biologica, la parola ‘sostenibile’? “Bella domanda”, commenta Stucchi Prinetti. “Oggi in qualche caso la sostenibilità si pone come alternativa al biologico, e questo è un grosso errore. L’agricoltura biologica non è tutto, però abbraccia molto di quello che s’intende per sostenibilità, cioè un’attenzione a tutto campo, quindi anche all’uso dell’energia, a pratiche per il miglioramento del suolo come il compostaggio, agli aspetti sociali, e altro ancora”.
Biologico o sostenibile? Entrambi.
Gionata Pulignani, direttore tecnico di Marchesi Mazzei (Castello di Fonterutoli, Tenuta di Belguardo, Tenuta Zisola) la pensa un po’ diversamente. “Anche se da anni stiamo lavorando per ridurre sempre di più l’uso di zolfo e rame in viticoltura abbiamo scelto di non fare la certificazione biologica”, racconta Pulignani. “Abbiamo cioè preferito sposare un concetto più onnicomprensivo e strutturato come quello della sostenibilità, anche se abusato e difficile da trasmettere al consumatore. La certificazione è uno strumento che serve per renderci consapevoli di quello che stiamo facendo, per aiutarci a migliorare, e al tempo stesso far capire il nostro sforzo al consumatore”. Delle aziende Marchesi Mazzei, i 110 ettari vitati di Castello di Fonterutoli godono già della certificazione standard Sopd Equalitas (Sostenibilità della filiera vitivinicola) di Valoritalia, mentre la tenuta maremmana di Belguardo con i suoi 34 ettari sta completando il percorso per ottenerla, e conta di avere la certificazione Sqpni della Produzione Integrata di Valoritalia entro quest’anno. Invece i 21 ettari della siciliana Zisola sono già certificati bio, perchè l’azienda comprende anche altre colture come gli agrumi e le carrube. “Che siano biologiche, sostenibili, o in Produzione Integrata Sqpni, sono tutte produzioni interessanti”, conclude Pulignani. “Rappresentano il segnale di una direzione ben tracciata. Le aziende devono seguire per forza una certa filosofia agronomica, fatta di preservazione della fertilità, rispetto ambientale, biodiversità. In realtà la normalità dovrebbe essere proprio questa”.
La biodiversità di Castello di Meleto
Per Castello di Meleto, che possiede una delle più grandi superfici di vigneto a Gaiole – ben 142 ettari sui 160 di proprietà – , sostenibilità e approccio biologico sono concetti che fanno parte della filosofia produttiva praticata da anni. “Da noi la sostenibilità ambientale parte da lontano, perchè applichiamo i principi della produzione ragionata e rispettosa dell’ecosistema che ci circonda”, dice il direttore generale Michele Contartese. “Questo impegno si esprime in diverse direzioni. Uno degli aspetti più importanti, per esempio, è il mantenimento del bosco, esteso su più di 800 ettari, che ogni anno richiede una manutenzione di centinaia di ore di lavoro per conservarlo in buono stato”. Uno sforzo che però vale la pena portare avanti perché grazie a questo patrimonio di piante l’azienda riesce a ridurre in gran parte le emissioni di anidride carbonica del ciclo di produzione. Ogni anno, infatti, sono circa 7mila le tonnellate di CO2 eliminata, corrispondenti a 2.120 voli intercontinentali, andata e ritorno, da Londra a Los Angeles. “Una pianta che produce in equilibrio con l’ambiente circostante è più salutare e potenzialmente più longeva”, commenta Contartese. “Sicuramente il biologico richiede tanti sacrifici, più lavoro in campagna e maggiore attenzione ai dettagli ma, se il vantaggio è ottenere uve fantastiche, continueremo a impegnarci”.
Lamole: con il biologico si combatte il cambiamento climatico
Del valore aggiunto di lavorare in regime biologico parla anche Andrea Daldin, enologo dell’azienda Lamole di Lamole, il cui percorso per la riconversione di 40 ettari di vigneto è iniziato nel lontano 2005. “Un buon vino nasce obbligatoriamente in un ambiente ‘sano’ ed è questo che va a certificare il contrassegno”, racconta Daldin. “Ritengo che il più importante valore aggiunto stia proprio in vigna: l’approccio biologico ha infatti permesso alle viti di diventare più resilienti, in grado di affrontare – senza aiuti esterni – la sfida dei parassiti, dei funghi, e quella del clima sempre più estremo che si è registrato negli ultimi anni”. Meglio biologici o sostenibili? “A mio avviso, ma credo condiviso da molti, il biologico è una garanzia sul prodotto che consumiamo, ma racconta solo in parte la filosofia e l’essenza dell’azienda che lo produce. Se allarghiamo l’obiettivo dal solo prodotto finito all’intera filiera produttiva, ecco che ci accorgiamo di come la certificazione Mipaaf sia solo il risultato ultimo dell’intera filosofia produttiva dell’azienda, che abbraccia il territorio, i fornitori, i collaboratori, i consumatori stessi. Noi pensiamo e lavoriamo in ottica sostenibile ancor prima di essere biologici; ‘sostenibile’ non è solo l’approccio all’ambiente, ma anche le persone che lo vivono e ci lavorano” .
Di Elisabetta Tosi