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Le partite di calcio in cielo e l'immortalità dell'anima

Le partite di calcio in cielo e l’immortalità dell’anima

Diversi meme apparsi sui social dopo la morte di Pelè, raffiguravano il cielo o l’aldilà con Maradona e lo stesso Pelè abbracciati e pronti ad affrontarsi per una partita di calcio. Un modo anche per continuare quella contrapposizione di sempre su chi sia il calciatore più forte di tutti i tempi. In tanti hanno ripreso l’affermazione di O’ Rey che commentando su twitter la morte di Diego Armando Maradona, aveva scritto. “Che triste notizia. Ho perso un grande amico e il mondo ha perso una leggenda. C’è ancora molto da dire, ma per ora possa Dio dare forza ai membri della famiglia. Un giorno, spero che potremo giocare a palla insieme nel cielo”.

Pelè e Maradona non sono gli unici campioni amati dagli sportivi e dai tifosi di calcio che ci hanno lasciato in tempi recenti. Basta pensare a John Cruyff, “il Pelè bianco” (2016), Paolo Rossi (2020) e negli ultimi giorni Sinisa Mihajlovic e Gianluca Vialli a soli 58 anni: dipartita questa che ha lasciato molta tristezza e generato grande commozione tra i tifosi e la gente in generale.

Può essere suggestivo pensare che le anime di questi campioni – ma in fondo di tutti gli uomini- continuino a svolgere le loro attività e a soddisfare le loro passioni in un reame celeste e che ogni tanto guardino dall’alto tutto quello che avviene, non solo sui campi di calcio ma in tutto il globo terrestre.

Gli scettici e i non credenti fanno spesso notare, non senza una venatura di sarcasmo, che la destinazione di tutti i morti quando vengono ricordati o celebrati – secondo i credenti – è sempre il cielo. Questo lascerebbe mancante o perlomeno abbastanza nebulosa, la destinazione di chi non è “buono” e non si è meritato il cielo, come i “cattivi”, che in effetti non sono proprio pochi in questo mondo. In pratica, i cattivi o i malvagi chi sarebbero e dove andrebbero quando muoiono, se a tutti viene attribuita sempre come assegnazione finale il cielo o il paradiso?

Al di là di questo, la convinzione dell’anima immortale, di fatto, è quasi universale e secolare se non millenaria, Vi credevano per esempio i popoli mesopotamici anche prima di Socrate, Platone e dei greci.

Tra le confessioni cristiane solo i Testimoni di Geova, gli Avventisti del Settimo Giorno e alcune altre piccole minoranze rigettano la credenza dell’anima separata dal corpi che continua la sua esistenza dopo la morte dell’individuo. In passato fra coloro che rifiutarono di credere nell’immortalità della persona ci sono i famosi filosofi Aristotele ed Epicuro, il medico Ippocrate, il filosofo scozzese David Hume, l’erudito arabo Averroè e il primo capo del governo indiano dopo l’indipendenza, Jawaharlal Nehrer.

Ma a quali conclusioni sono giunti alcuni ricercatori e studiosi che hanno analizzato il concetto dal punto di vista storico, dottrinale e biblico, visto che prove di altro genere non possono essere ricavate in altri modi?

In un articolo di Famiglia Cristiana, del Cardinale arcivescovo e biblista Gianfranco Ravasi apparso il 19 agosto sul blog dal tema “50 parole ebraiche usate da Gesù”, si affrontava il concetto di anima da un punto di vista etimologico e dottrinale con l’esame delle parole ebraiche Basàr e Nèfesh tradotte nelle Sacre Scritture carne e anima.

Le argomentazioni che facilmente potrebbero sembrare disquisizioni metafisiche interessanti solo per biblisti, teologi o studiosi, hanno a che fare invece con l’essenza stessa dell’uomo, della vita, del futuro e della morte stessa.

Nell’articolo di Ravasi, è notevole la spiegazione proposta a proposito della parola Nèfesh: “Nèfesh è, però, anche il principio vitale che costituisce la nostra identità di creature viventi: “Il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita, e l’uomo divenne un essere vivente (nèfesh)” (Genesi 2,7). Progressivamente il vocabolo è destinato a identificare l’”io” della persona, la sua stessa esistenza,… In sintesi possiamo dire che il nèfesh è una realtà dalle molteplici sfaccettature, destinata a definire la nostra qualità di creature viventi. È la nostra corporeità viva, tant’è vero che si afferma che “il sangue è nèfesh e tu non devi mangiare il nèfesh insieme con la carne (bàsar)”. L’articolo si concludeva così: “Come è stato scritto da uno studioso, “Nèfesh è l’essere stesso dell’uomo e non un suo possesso””.

Interessante anche quello che pensava Miguel de Unamuno, eminente pensatore spagnolo del XX secolo. A proposito di Gesù scrisse: “Credeva forse nella resurrezione della carne, al modo ebraico, non nell’immortalità dell’anima, alla maniera platonica . . . Le prove di ciò si possono trovare in qualsiasi libro di esegesi valida”. E concluse: “L’immortalità dell’anima . . . è un dogma filosofico pagano”.

Anche il filosofo Umberto Galimberti, in risposta a una lettrice che gli chiedeva maggiori spiegazioni sul significato della parola anima, in un recentissimo inserto di Repubblica ha affermato: “L’ idea di anima contrariamente a quanto più pensano, non è nata dalla tradizione giudaico/cristiana ma nella cultura greca, responsabile del dualismo anima e corpo che ancora condiziona la cultura occidentale sia in campo religioso che psicologico…Il cristianesimo ha come suo fondamento il corpo come scrive Giovanni nel suo Vangelo…anche San Paolo quando parla di risurrezione dell’ultimo giorno non parla di “anima” (psychè) ma di corpo (soma): “Si semina corpo corruttibile e risorge incorruttibile” (1 Corinti 15,42). Fu Sant’Agostino, neoplatonico, a prelevare la parola “anima” da Platone, che l’aveva introdotta in uno scenario gnoseologico per risolvere un problema di conoscenza, per inserirla nello scenario della salvezza, inaugurando il tratto tipico dell’antropologia occidentale che pensa l’uomo composto di anima e corpo. Un corpo corruttibile e perituro e un’anima incorruttibile e immortale. In tutto ciò non c’è nulla di cristiano e bene farebbero i cristiani a prestare attenzione al loro Credo, in cui recitano di credere non nell’immortalità dell’anima, ma nella resurrezione dei corpi”.

Si può alzare gli occhi o le mani verso il cielo, come fanno molti calciatori quando segnano, forse perché il loro pensiero va ai propri genitori morti o a un loro fratello o caro amico che non c’è più, quasi ringraziandolo per il gesto tecnico conseguito o perché “spettatore dall’alto” di quello che è riuscito a fare in campo. Eppure a quanto sembra, Sacre Scritture alla mano, la vera speranza che emerge dagli approfondimenti e dall’esegesi biblica è quella di una resurrezione della carne o dei corpi. Credenza o speranza questa, che andrebbe eventualmente indagata, studiata a fondo e assimilata dai credenti o da chi si chiede quale sia il destino dell’uomo dopo la morte. Un’opzione da non trascurare per poi convincersi o meno su quello che è il futuro di chi non c’è più e fondamentalmente di ogni essere umano.

Roberto Guidotti

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