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Petrolio, il petroyuan cinese scalzerà il dollaro?

Nel 2023 una parte significativa dei pagamenti delle forniture di petrolio e di energia avverrà in yuan, la valuta cinese, e non in dollari. Ecco dati e conseguenze

Arabia Saudita permettendo, il 2023 potrebbe essere l’anno del petroyuan, ossia del passaggio di una quota significativa dei pagamenti delle transazioni energetiche dai famosi petrodollari alla valuta cinese, in una svolta che va nella direzione della dedollarizzazione tanto cara a Xi Jinping.

Che cos’è il petroyuan

Come scriveva a suo tempo il team di ricerca della Società di analisi di mercato FXCM, nel marzo 2018 fece il suo debutto nel commercio globale del petrolio un prodotto finanziario etichettato come petroyuan.

Il petroyuan è un contratto future disponibile per lo scambio nello Shanghai International Energy Exchange. La sua caratteristica principale è che la commodity ceduta, ossia il petrolio, è denominata in yuan per barile.

Quell’esordio fu, scrivevano gli analisti di FXCM, la conseguenza naturale della trasformazione della Cina nel più grande importatore di petrolio al mondo, svolta consumatasi nel settembre 2013 che generò in Cina spinte per creare un mercato dei future del greggio basato sullo yuan.

Già allora gli esperti del settorepredissero che il lancio del petroyuan avrebbe avuto “formidabili conseguenze dal punto di vista geopolitico e finanziario”.

L’avvento del petroyuan fu visto come un importante step verso il raggiungimento dell’obiettivo di lanciare lo yuan come valuta internazionale, ovviamente in  competizione con un dollaro che ancora era scelto nel 39% di tutti i pagamenti internazionali.

Essere in grado di condurre affari esclusivamente in yuan, anziché compiendo prima la transazione in dollari, rappresentava una valida alternativa per più motivi. Innanzitutto perché non esponeva più alle oscillazioni del dollaro e all’arbitrio della Fed. In secondo luogo perché molti Paesi produttori di petrolio, come Iran e Venezuela, erano soggetti alle sanzioni Usa.

Giù nel 2018 si pensava che il petroyuan sarebbe alla fine stato adottato dai Paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) in conseguenza dei loro stretti legami con Pechino e della comune volontà di emanciparsi dalla tirannia del dollaro.

L’analisi di BNP Paribas

In un documento pubblicato lo scorso 6 gennaio a forma dell’analista Chi Lo, la banca transalpina predice un futuro radioso per il petroyuan.

La valutazione di BNP Paribas tiene conto delle pesanti sanzioni elevate alla Russia dopo l’invasione dell’Ucraina, che hanno spinto Mosca a bypassare il sistema Swift per commerciare il suo petrolio adottando il sistema cinese CIPS (Cross-border Interbank Payment System). Ma la banca ha tenuto in considerazione la possibilità che anche il maggior produttore di petrolio al mondo, ossia l’Arabia Saudita, possa adottare lo stesso sistema CIPS, una soluzione che ha trovato riscontro in un articolo del Wall Street Journaldel marzo 2022 in cui si preannunciava questo passaggio almeno per quanto riguarda le partire di greggio acquistate dalla Cina.

Alcuni analisti, sottolinea ancora Chi, sono del parere che il passaggio del commercio di petrolio dall’orbita del dollaro a quella dello yuan possa spostare in direzione del secondo transazioni finanziarie per un ammontare compreso tra 600 miliardi e un trilione di dollari ogni mese. Ciò si riverbererebbe sul sistema globale dei pagamenti, con la possibilità concreta che lo yuan, attualmente quinta valuta globale secondo i dati Swift, possa superare abbondantemente l’attuale quota del 2,37% del totale, creando le condizioni per il sorpasso rispetto allo yen giapponese.

La valutazione di Credit Suisse

In un recente articolo di Oil Price si riferisce che un analista di mercato di Credit Suisse, Zoltan Pozsar, stia già avvertendo i suoi clienti di regolarsi con un’industria globale del petrolio in cui la dedollarizzazione è in pieno corso.

Per suffragare la propria analisi, Pozsar ricorda che il 40% delle riserve mondiali di petrolio che fanno capo al cartello Opec+ appartengano a tre Paesi come Russia, Iran e Venezuela che, oltre a vendere greggio alla Cina con forti sconti, stanno già regolando le proprie transazioni in petroyuan.

L’altro 40% è sotto il controllo dei Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC), i quali nel summit Cina – GCC tenutosi lo scorso dicembre in Arabia Saudita si sono sentiti dire da Xi Jinping che si auspica da loro il pieno uso dello Shanghai Petroleum and Natural Gas Exchange per regolare i pagamenti del commercio del petrolio esportato a Pechino.

In una nota ai suoi clienti pubblicata dal quotidiano Irish Times lo stesso Pozsar ammoniva: “la Cina vuole riscrivere le regole del mercato mondiale dell’energia”, e lo farà facendo uscire dall’orbita del dollaro i Paesi del GCC, quelli del Brics e tutti gli Stati che sono stati penalizzati dalle sanzioni americane contro Mosca.

A questi Paesi, aggiungiamo noi, si potrebbero presto affiancare quelli riuniti nella Shanghai Cooperation Organization, destinatari anch’essi al vertice di Samarcanda dello scorso settembre di un appello da parte di Xi Jinping a usare lo yuan per le loro transazioni.

Falso allarme?

Per quanto fondate su dati oggettivi, queste predizioni si scontrano con una realtà che spinge in tutt’altra direzione.

La Cina anzitutto detiene più di un trilione di dollari in bond del Tesoro Usa e non avrebbe quindi alcun interesse a destabilizzare il dollaro. Quanto all’Arabia Saudita, essa non sembra affatto in procinto di fare il salto nel buio, sentendosi tuttora ancorata al patto stretto con gli Usa decenni fa che la vincola a usare il dollaro come valuta di pagamento in cambio dei benefici derivanti dall’inclusione nel sistema finanziario occidentale e di precise garanzie militari sulla difesa del Regno da parte delle forze armate americane.

Sembra dunque prematuro annunciare la fine dell’era dei petrodollari e la sua sostituzione con una fase in cui domineranno i petroyuan. Certo è che molte sono le spinte in quella direzione, come tenace e insistente è la determinazione di Pechino di trasformare lo yuan in una valuta pregiata.

Washington dovrà dunque vigilare affinché il minor numero di Paesi possibile decida di convertirsi al credo antiamericano della Repubblica popolare.

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