Chiara Cantucci recensisce la mostra del Casino dei Principi di Villa Torlonia a Roma, dedicata al grande scultore Pietro Cascella nel centenario della sua nascita
L’esposizione inaugurata presso Casino dei Principi di Villa Torlonia a Roma (01/12/2022-19/03/2023) a
cura del Comitato Nazionale per le Celebrazioni del Centenario della nascita di Pietro Cascella, dimostra
già dal titolo una palese chiarezza d’intenti. La mostra monografica è infatti dedicata a uno dei più
rappresentativi scultori italiani del XX secolo, familiare all’immaginario nazionale per la presenza di diversi monumenti in spazi pubblici (basti pensare al Monumento a Mazzini a Milano o alla Nave di Pescara), ma anche a livello internazionale grazie al celeberrimo Monumento alle vittime di Auschwitz. Tuttavia il periodo indagato è quello sicuramente meno noto della formazione, avvalendosi di un notevole numero di opere inedite provenienti dalla collezione familiare, dal Museo Civico Basilio Cascella a Pescara (da cui si spostano per la prima volta) e da collezioni private. Si aggiunge la scoperta di materiali inaspettati attraverso cui si delinea il percorso dell’artista, che prima di approdare definitivamente alla scultura in pietra ha sperimentato in diverse direzioni, generi e tecniche. La sede dell’evento, Casino dei Principi di Villa Torlonia a Roma, custode dell’Archivio della Scuola Romana, risulta quanto mai appropriata ad accogliere una vicenda personale che proprio nella capitale trova un punto di snodo.
Procedendo con ordine, il visitatore è accolto da due opere che sono già due pietre miliari: Noi Cascella
(1940) e L’insegna della mia bottega (1960), che rappresentano rispettivamente la famiglia e il mestiere,
aspetti da sempre uniti inscindibilmente nella vita di Pietro. La prima sala risale dunque alle origini,
inquadrando la nascita delle prime prove. Impossibile non considerare l’appartenenza di Cascella a una vera e propria dinastia, che se non segna già un destino personale, serve a spiegare l’inserimento precoce del talentuoso giovane nel circuito artistico ma soprattutto a offrire dei capisaldi nell’approccio al mestiere e nelle influenze stilistiche presenti, si può dire, fin dall’infanzia. Il centro di Pescara a cavallo tra Otto e
Novecento non vide solo l’emergere del cenacolo dannunziano, ma anche l’affermazione della carismatica
figura di Basilio Cascella, pittore verista prima ma soprattutto simbolista poi, che fonda uno stabilimento
litografico (tuttora sede dell’omonimo museo) e una fornace di ceramiche. Come Tommaso Paloscia illustra nella pubblicazione dedicata alla famiglia Cascella, questo inizio stabilisce alcuni punti fermi: l’idea di mestiere come ideale didattico, per cui solo lo sviluppo della capacità manuale e la perfetta padronanza delle tecniche permette la libera e creativa espressione dell’artista in qualsivoglia direzione; la costante applicazione al disegno in senso costruttivo e di studio; la pratica lavorativa di squadra, declinata nellatradizione di una bottega rinascimentale in cui, lungi dall’annullare le singole personalità, si giungeva al raggiungimento di un obiettivo comune attraverso la collaborazione di diversi talenti e competenze. Si
somma poi il substrato culturale derivante dal legame con il territorio, inteso nella sua valenza di
suggestione e memoria, tratto che rimarrà costante dal momento in cui Pietro lascerà l’Abruzzo.
Nelle opere che sono esposte infatti, periodicamente riaffiorano temi e rappresentazioni di una terra che ancora non aveva visto una forte industrializzazione, ma dove il confronto con la natura e le tradizioni popolari erano ancora vive. Questi ultimi valori si incarnano in particolare nel padre di Cascella, Tommaso, rimasto pervicacemente ancorato al borgo d’origine e al nucleo familiare e artistico, in particolare pittura e
ceramica. Nel frattempo (1938) Pietro si trasferiva a Roma e qui cominciava la pioggia di stimoli che
emergono nelle tele visibili. Il catino d’immagini attinge a un vasto repertorio che spazia dal Barocco
romano, alle influenze guttusiane e dechirichiane, per giungere alle allora più recenti esperienze provenienti dalla Francia. È evidente l’iter di un esordiente in formazione, che tenta diverse formule per chiarirsi quale proposta possa apparirgli più congeniale nell’attesa di maturare uno stile proprio.
Il rigore dell’attitudine disegnativa comincia già ad allentarsi nei pastelli e negli acquerelli realizzati a cavallo degli anni Quaranta, dove i tratti decisi e sintetici delineano già una spiccata plasticità, mentre l’impronta familiare è manifesta nei bozzetti per grande decorazione, a partire da quella realizzata col padre Tommaso (1938-40) per proseguire nelle prove personali (1938-39). Le Figure allegoriche e mitologiche non possono non fare i conti con il traboccante contesto romano della tradizione, ma già filtra, nell’uso delle sciolte pennellate dai tratti espressionistici e dalle vivide tonalità, l’inevitabile confronto con la “Scuola Romana” di Scipione, Mafai e Raphael. Uno sguardo alle due Crocifissioni (rispettivamente 1940 e 1942), significativamente accostate, basta già a rendere l’idea di quanto rapido fosse il cambiamento nell’occhio del giovane pittore e la quantità di impressioni che fosse già in grado di rielaborare.
Questa prima fase di formazione si chiude nella terza sala della mostra con opere che arrivano al 1949 e che, nella riproposizione del genere paesaggistico narrano l’evoluzione dai primi, delicati, ricordi della terra natìa all’infiltrarsi della riflessione sulle esperienze impressioniste, cezanniane e ancor di più, cubiste e picassiane, evidenti nella Donna d’Abruzzo (1948) e nel progressivo dissolvimento delle forme e allontanamento dalla figurazione nei paesaggi e nelle marine. Del resto un giovanissimo Cascella partecipava alla Biennale veneziana già nel 1942 e vi sarebbe tornato nel 1948, con ben altre esperienze alle spalle.
Se infatti Pietro era sbarcato a Roma per completare la sua formazione all’Accademia di Belle Arti, altro
tipo di ammaestramento avrebbe trovato al suo ritorno nella capitale dopo l’inevitabile cesura della guerra. Riunitosi al fratello maggiore Andrea, anch’egli artista, si sarebbe trovato immerso in un ambiente in ebollizione. In un paesaggio ancora composto di macerie, molte frontiere fisiche ed ideologiche erano
cadute, mentre altre se ne innalzavano. Nell’affresco magistralmente dipinto dall’Osteria dei pittori di Ugo Pirro (1994), viene narrato l’acceso scontro tra innovazione astrattista e tradizione figurativa, a volte in palese contraddizione con gli schieramenti politici che la nuova situazione imponeva. I fratelli Cascella si
pongono però in una strada parallela, condensata in mostra dal grande pannello fotografico collocato lungo la scala che conduce al piano superiore dell’edificio. Qui compaiono Pietro, Annamaria Cesarini Sforza (mosaicista e moglie dell’artista) e Andrea al lavoro nella fornace-laboratorio a Valle dell’Inferno. Questa peculiare impresa si caratterizza anzitutto per la sua ubicazione, ai margini della città e in una zona già attivamente occupata dai fornaciari locali dediti alla fabbricazione di mattoni. Se materiale (l’argilla) e la
strumentazione (i forni) erano in comune, i Cascella si preoccuparono che anche il resto del lavoro lo fosse,
instaurando un proficuo rapporto e scambio di esperienze con le maestranze presenti. Forti della loro
formazione in bottega, comprendevano come la connotazione artistica del loro operato ben si coniugasse
con il contesto nel quale avevano deciso di collocarsi, in un inedito esperimento etico-sociale. Sarebbe
tuttavia riduttivo appiattire l’episodio a un corollario dello scontro critico e politico in atto e le opere esposte nella seconda sala del piano superiore lo dimostrano. Sia pur nel tentativo di trovare prodotti di facile smercio per sopravvivere alle difficili condizioni dell’immediato dopoguerra, la produzione di piatti,
stoviglie e dei generi più disparati non sacrificò mai la ricerca di nuove forme espressive che i tempi
richiedevano. A questo intento si aggiungeva il legame con l’Abruzzo, con i relativi ricordi familiari e
popolari: nascono così le serie di Mazzamurelli, spiritelli campagnoli di tradizione popolare, quasi genius
loci protettori della nuova impresa. Riuniti sul tavolo al centro dell’ambiente si trova una serie di oggetti
che, pur partendo da oggetti d’uso se non schiettamente di origine popolare (come appunto il Mazzamurello, i Piatti o il Portafiori), traccia un sentiero che progressivamente si arricchisce di suggestioni postcubiste (il pensiero corre al parallelo percorso ceramico di Picasso a Vallauris), per giungere ad esiti astratti ed informali. La ceramica si prestava come strumento ottimale alla ricerca di un nuovo linguaggio in quanto meno vincolato accademicamente rispetto al medium pittorico, e permetteva una scomposizione e rimontaggio delle forme nello spazio nella direzione sempre più scultorea verso cui Pietro tendeva. In questa ottica va vista anche la tecnica dell’incastro, usuale nelle botteghe ceramiche: consistente nella suddivisione del complesso in più pezzi (per evitare dilatazioni e rotture in fase di cottura) e successiva ricomposizione, diventa nelle ceramiche di Valle dell’Inferno una maniera per ripensare e assemblare plasticamente le masse, con risultati ben aldilà da venire.
Salendo al piano superiore, si viene accolti dalla prima sala da una serie di bozzetti per decorazione
ceramica che anticipano il grande spazio dove si narrano estesamente gli anni Cinquanta. Finalmente la
situazione inizia a migliorare e le commesse ad arrivare. Sono gli anni delle creazioni a quattro mani con
Annamaria Cesarini Sforza, come i pannelli per il Cinema America, la Stazione Termini o il progetto
pubblico INA-Casa. In collaborazione con il fratello Andrea nascono le decorazioni quali il pannello esterno dell’ex ministero del Tesoro, le chiese di Francavilla a Mare, Matera, Nardodipace. In particolare va ricordato il rapporto con Giò Ponti, che coinvolgerà Pietro in progetti architettonici e segnalerà le ceramiche su Domus. Le sculture ceramiche realizzate per queste occasioni non solo imporranno una riflessione sulla gestione di grandi dimensioni (come avverrà nelle successive creazioni monumentali), ma la partecipazione a spazi funzionali renderà più forte in futuro la volontà di creare di ambienti inclusivi dello spettatore (come ad esempio nel Monumento a Mazzini o quello A tutti i giorni).
Se lo Studio per soffitto per il Ministero degli Esteri e il cartone con Le donne dei pescatori ci riconducono ancora a ricordi d’infanzia (rispettivamente la decorazione del soffitto della chiesa di San Donato a Castelli in mattonelle maiolicate e il borgo pescarese), un pezzo quale Tenaglie (1955) pare rendere omaggio all’esperienza di Valle dell’Inferno e segnare invece il passo verso un’altra direzione, in cui la ceramica ha già aperto le porte a cambiamenti. Il nuovo laboratorio sull’Aurelia vede l’utilizzo di altri materiali, e già il Mazzamurello del 1959 nella sala principale del piano inferiore non è più in argilla ma in alluminio.
La maestrìa tecnica di Pietro, come appreso nella bottega familiare, consente all’artista di testare le capacità di strumenti inediti in nuove forme espressive e si assiste così all’introduzione della sabbia, del gesso, del ferro, del cemento, quando non addirittura materiali di scarto delle lavorazioni. Il termine del decennio vede quindi l’affermazione di un linguaggio scultoreo più deciso, evidente nell’ultima grande sala dell’esposizione a partire dai pezzi raccolti sul tavolo al centro dello spazio. Non più espressionistici colori tingono le composizioni ma tinte neutre valorizzano una più articolata composizione delle masse nello spazio; gli spiritelli della campagna cedono il passo a sintesi simboliche quali la Venere, L’occhio di Dio, il Bozzetto di portale; il tempo si astrae sempre più dalla contingenza per tendere alla sospensione. Il desiderio di trapasso a nuovi modi di intendere la forma traspare infine dai quadri-scultura appesi alle pareti.
In queste singolari rappresentazioni non va trascurata l’influenza dell’amico e collega Sebastian Matta,
materialmente presente nella realizzazione de I due ubriaconi. Presente a Roma dal 1949, il collega cileno
rappresenta un punto di raccordo tra l’espressionismo astratto e la nascente tendenza astratta italiana. Le
tele cosparse da una mistura di sabbie riflettono l’aspirazione alla tridimensionalità e al definitivo
superamento della resa pittorica: “materia scabra, questo cotto avaro di colore, questo deserto… ma questo deserto, che segna una fase di transito, bisognava attraversarlo…”2. Cascella è pronto al grande salto, che avverrà con la vittoria del concorso internazionale per il Monumento alle vittime di Auschwitz.
L’itinerario proposto si snoda per sale tematiche senza seguire un filo strettamente cronologico anche se,
ad esempio, i diversi esemplari di Macchine per toccare i suoni proposti sin dalla sala degli esordi pur
essendo di datazione e materiale successivo, si inseriscono organicamente alla luce della coerente
evoluzione dello scultore (a partire dalla tecnica dell’incastro). L’allestimento risulta sobrio ed essenziale:
per le opere pittoriche si concretizza in cornici lignee cromaticamente intonate e prive di ogni modanatura
così da non interferire ma anzi valorizzare l’opera inquadrata; analogo effetto viene ottenuto dai tavoli in
metallo scuro utilizzati per l’ostensione delle opere di piccolo formato. L’essenziale apparato comunicativo
è integrato da un agile catalogo che vede, oltre alla collaborazione dei diretti familiari dello scultore, un
approfondimento critico delle esperienze pittoriche e ceramiche come finora non era stato fatto se non nei brevi brani dell’antologia critica riunita per l’occasione.
Una mostra dedicata al periodo di formazione e di esordio di un artista permette generalmente di illuminare in maniera più coerente il percorso critico compiuto. Le prove pittoriche appaiono quasi come il necessario rito di passaggio per l’affermazione nel contesto artistico così come appreso in famiglia o strumento di confronto con le più vicine innovazioni critiche, mentre l’esposizione evidenzia il ruolo decisivo svolto dall’esperienza ceramica per la definizione di un’identità compiuta di Pietro Cascella come scultore. Sarà l’esperienza di bottega in famiglia a trasmettere a Pietro i mezzi tecnici e critici occorrenti: il lavoro collettivo come arricchimento tecnico, la padronanza tecnica dei mezzi in grado di affrontare materiali inediti, il legame con un territorio e un terreno culturale simbolico e arcaico a cui poter sempre attingere.
Roma sarà il centro nevralgico in grado di ancorare a questa solida base la ricchezza di stimoli, proposte e
riflessioni a cui il giovane sarà chiamato a contribuire attivamente. Se Pietro non proseguirà nella scelta di
eleggere la ceramica a medium scultoreo protagonista, indubbia rimane la sensibilità e l’apertura mentale
nel tracciare la propria via. Come sintetizzato in maniera efficace da Enrico Crispolti: “nata nel lavoro in
ceramica all’inizio degli anni Cinquanta, immediata ed esuberante quale proiezione immaginativa dello
spazio e come pronta e accesa, quasi allegra corsiva configurazione di invenzioni plastiche, cromatiche,
materiche […] questa scultura ha infine trovato nel simbolo la propria dimensione d’interiorità e di
memoria, nel nesso profondo di presente e passato”