Dalla visita di tre giorni del presidente cinese Xi Jinping a Mosca, su invito del suo “amico” Vladimir Putin, sono emerse due certezze. La prima: la partnership tra Russia e Cina si è rafforzata. A fare da traino sono gli accordi commerciali bilaterali, l’aumento delle esportazioni del gas russo verso la Cina a prezzi stracciati e l’indirizzo del Cremlino alla de-dollarizzazione dei mercati finanziari, con l’ok di Mosca a usare lo yuan cinese per il commercio con i paesi terzi. L’incontro che si è svolto questa settimana al Cremlino ha evidenziato una realtà innegabile: la relazione tra Mosca e Pechino è ormai squilibrata e la bilancia pende tutta a favore della Cina.
“Gli Usa ostacolo a un mondo migliore”: la nuova era disegnata da Xi e Putin
Lo zar, isolato diplomaticamente, schiacciato economicamente dalle sanzioni occidentali e con un mandato di arresto internazionale sulla propria testa, ha mostrato però al mondo intero di avere al suo fianco un gigante del calibro della Cina. Ma ciascuno dei due leader ha ottenuto i propri vantaggi dal loro quarantesimo incontro. Summit che, secondo alcuni analisti, è servito a evidenziare una “bromance di convenienza”. Xi infatti non se ne è andato dalla capitale russa staccando un assegno in bianco. Quello che ha ottenuto il presidente cinese è un rafforzamento della sua immagine di statista agli occhi dei cinesi e dei leader internazionali.
Il summit di Mosca è stato infatti preceduto da una vittoria per Xi: la Cina ha infatti contribuito alla ripresa delle relazioni formali tra Arabia Saudita e Iran. Passo dopo passo, Pechino ha occupato un vuoto lasciato dagli Stati Uniti in una regione dove l’influenza statunitense è stata predominante per decenni. Ora la Cina vuole presentarsi come attore protagonista per la risoluzione del conflitto in Ucraina attraverso il dialogo, pur tenendo conto delle “legittime preoccupazioni di tutte le parti”. Ma lo fa senza spingere per un ritiro delle truppe russe dal territorio ucraino.
Prima ci ha provato con un “piano di pace” in 12 punti (anche se sarebbe meglio definirlo position paper, o documento programmatico) in cui non viene mai precisato quale sia – o se ci sia – l’aggressore e l’aggredito. Poi con la dichiarazione congiunta finale del summit a Mosca, dove il punto sulla guerra in Ucraina (che entrambe i presidenti continuano a definire “crisi ucraina”) è apparso solo nell’ultima sezione del documento. Ed è qui che emerge una sostanziale differenza dal “piano di pace” proposto dalla Cina a pochi giorni dal primo anniversario dallo scoppio del conflitto: non viene ribadito esplicitamente la parte relativa alla sovranità e integrità territoriale dell’Ucraina.
Tutto il mondo ha guardato con attenzione al summit tra Xi e Putin nella speranza che il leader cinese spingesse lo zar a cercare una via negoziale – convincente anche per Biden e Zelensky – sulla guerra in Ucraina. Ma così non è stato. Come non si è verificato l’atteso dialogo tra il presidente cinese e il suo omologo ucraino, preannunciato dai media internazionali. E siamo arrivati alla seconda certezza.
Le aspettative per un dialogo, che sarebbe il primo tra Xi e Zelensky dall’invasione dell’Ucraina da parte dei soldati di Mosca, sembrano affievolirsi: Kiev ammette “difficoltà” nelle linee di comunicazione, mentre Pechino si trincera dietro formula vaghe, in assenza di annunci significativi.
La contraddizione della ‘pace cinese’ in Ucraina
La Cina ripete di considerarsi “neutrale” rispetto al conflitto, ma è spesso accusata di essere allineata alla propaganda di Mosca. Alle critiche mosse dalla Casa Bianca relative ai rapporti tra Mosca e Pechino, il portavoce del ministero degli Esteri cinese Mao Ning ha definito la cooperazione sinorussa “un’onesta amicizia tra gentiluomini, in netto contrasto con l’egemonia e il bullismo degli Stati Uniti”, nonché con “il mosaico di circoli chiusi, esclusivi, egoisti e ristretti”. Parole che esprimono pienamente la retorica sinorussa anti-americana e anti Nato, animate anche dalle accuse americane sul presunto aiuto militare che la Cina offrirebbe a Mosca. Gli Stati Uniti non hanno ancora prove che la Cina abbia fornito armi alla Russia, ma se lo facesse – è il pensiero il capo del Pentagono Lloyd Austin -, questo “prolungherebbe il conflitto e certamente amplierebbe la guerra potenzialmente non solo nella regione ma a livello globale”.
Il presidente cinese sa di avere una personale idea di ordine globale, dove non c’è più una nazione egemonica, gli Stati Uniti. Xi e Putin infatti abbracciano la visione di un nuovo ordine multipolare, che guarda ai paesi in via di sviluppo e al Sud globale, dove Pechino e Mosca trovano terreno fertile per sviluppare e garantire i loro interessi commerciali. Da qui la condanna dei due leader alla “mentalità da Guerra Fredda” promossa dagli Stati Uniti, che mira a dividere il mondo in due blocchi contrapposti: le democrazie da un lato e i paesi autoritari dall’altro. Insomma, un mondo a metà tra buoni e cattivi.
Proprio la democrazia è l’arma che Pechino usa per colpire il modello politico statunitense. Il 20 marzo, il giorno dell’arrivo di Xi a Mosca, la Cina ha pubblicato il report sullo “stato della democrazia americana” rispondendo ormai a un appuntamento fisso. Il documento, farcito di retorica del Partito comunista cinese, evidenzia come negli Stati Uniti regni la “politica disfunzionale” e dove si sono aggravati “le fratture sociali e il divario tra ricchi e poveri”. Il testo poi si concentra sugli effetti determinati dal “caos” degli Stati Uniti che “rifiutano di riflettere su se stessi, ma continuano a esportare i valori democratici americani in altri paesi e a usare il pretesto della democrazia per opprimere”.
Il messaggio non è poi così implicito. Washington, secondo Pechino, avrebbe esacerbato “la divisione nella comunità internazionale e il confronto tra blocchi” attraverso uno scontro tra democrazie e autoritarismi. Con il report sullo “stato della democrazia americana” la Cina evidenzia le falle del modello statunitense e lancia un messaggio al mondo: il sistema migliore, dice Pechino, è il nostro.