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Helga Schneider: «Come sono cresciuta con una madre che ha torturato gli ebrei ad Auschwitz»

Questa storia potrebbe sembrare la trama di un film che lascia senza fiato. Ma il racconto di Helga Schneider non è la trama di un film, è la sua vita.

Qualcuno probabilmente avrà letto uno dei suoi tantissimi libri: sia ne Il rogo di Berlino o nel celeberrimo Lasciami andare, madre, l’autrice nelle sue pagine ha sempre fatto intravvedere la sua esistenza incredibile, spesso raccontata con uno stile sintetico, talvolta duro. Come dure sono le sue memorie.

Nata nel 1937 in Slesia, ex terra prussiana e all’epoca sotto il Terzo Reich, nel 1941 Helga e il piccolo fratellino Peter, mentre il padre è già al fronte, vengono abbandonati a Berlino dalla madre che aveva deciso di arruolarsi come ausiliaria nelle SS, diventando guardiana nel campo femminile di Ravensrück e poi ad Auschwitz-Birkenau.

Helga e Peter vengono accolti dalla sorella del padre, zia Margarete, che aveva sposato il rampollo di una ricca famiglia berlinese. Durante la guerra la zia si è poi suicidata, dopo essere stata violentata da un gruppo di soldati sovietici davanti agli occhi della figlia di 7 anni. Intanto, durante una licenza dal fronte, il padre conosce una giovane berlinese, Ursula, che poi diventerà sua moglie. Ma la matrigna accetta solo il piccolo Peter e fa internare Helga in un istituto di correzione per bambini difficili. Poi, negli anni, la vita di Helga si è snodata fra il rimpatrio in Austria, le fughe dalla famiglia, la vita difficile a Salisburgo e poi a Vienna, per finire in Italia dove ha sposato un bolognese.

Nel 1971, venuta a sapere dell’esistenza ancora in vita della madre, sentì il desiderio di andarla a visitare a Vienna. Scoprirà solo allora che la madre, che era stata condannata da un sotto-tribunale di  Norimberga come criminale di guerra, dopo 30 anni non rinnegava nulla del suo scellerato passato.

Lei a Berlino ha vissuto a contatto con una famiglia di fede nazista, che posizioni ha avuto nella sua vita?
«In realtà il mio nonno acquisito era contro Hitler e la mia matrigna era abbastanza neutrale, ma mia zia Hilde, che lavorava al ministero della propaganda insieme a Joseph Goebbels, sì, era una   nazionalsocialista convinta. Per il resto, io ero una bambina, e ciò che avevo subìto del nazismo e della guerra erano la fame, la paura delle bombe e un’infanzia rubata. Solo crescendo avevo capito che cosa fosse la dittatura di Hitler e la drammatica realtà della Shoah. È palese che sono fermamente contro il nazismo, fermamente contro il regime criminale di Adolf Hitler e il suo perverso odio nei confronti degli ebrei. Fu Hilde a spedirci, insieme ad altri bambini, nel bunker sotto la Nuova Cancelleria per fare visita al Führer  A me sembrava un vecchio decrepito, mi diede una mano molle e umidiccia. È uno di quei ricordi che non si possono cancellare, e che ora si legano alla guerra in  Ucraina. Io vivo questa guerra con dolore e angoscia: è incomprensibile come dopo tanto tempo stia succedendo la stessa identica cosa. È incredibile che tutto il Male supremo di Hitler si stia ripetendo nel 2023! L’uomo non imparato proprio mai nulla dalla Storia?».

Ma secondo lei è necessario tenere memoria o a un certo punto bisogna lasciare andare?
«Ricordare fa male. Dopo i molti libri che ho pubblicato sulla storia di mia madre e sulla dittatura di Hitler, sì, avrei voluto dimenticare il passato, ma non ci riesco, tanto più che ho appena finito un libro  dal titolo Nordendstrasse 67 my life.  È l’indirizzo della casa in Berlino dove era nato mio fratello e dove ho vissuto i primi anni con la mia vera madre. Come vede, sono sempre daccapo».

Dicono che i tedeschi abbiano un senso di colpa per quanto è successo. Sua madre ha mai chiesto scusa alla popolazione ebraica?
«No, purtroppo mia madre non si è mai pentita, è rimasta una nazionalsocialista fino alla fine dei suoi giorni, convinta di essersi trovata allora dalla parte giusta. Mi aveva detto che, prima di cominciare a fare la guardiana, aveva fatto una specie di corso di desensibilizzazione psicologica per poter reggere alla violenza e alla crudeltà usata nei campi di sterminio. Ma dico: questa specie di lavaggio del cervello non le aveva fatto capire qualcosa? No, mia madre non si è mai sognata di chiedere scusa a nessuno. Molti mi hanno chiesto se sono riuscita a perdonarla. Io posso perdonare quello che ha fatto a me, a mio fratello e a mio padre, ma certo non posso perdonare quello che ha fatto alle donne ebree ad Auschwitz. Io, in generale, faccio fatica a odiare qualcuno e di certo è difficile pensare di odiare la propria madre, quindi non posso dire di odiarla, ma nemmeno ho mai provato per lei un sentimento di affetto o amore. Qualche anno fa avevo telefonato all’istituto fuori Vienna dove sapevo che fosse ricoverata. Fu allora che mi dissero che era morta, credo nel 2001. No, non ho pianto. Perché avrei dovuto? Ho domandato se avesse chiesto dei figli e no non ha chiesto dei figli, nessun accenno mai né a me né a Peter. Mi ero detta che forse, visto che ormai era morta, mi avrebbe lasciata finalmente andare. Ma non è stato così. Non mi ha ancora lasciata andare. Il ricordo è sempre lì».

E lei oggi, ricordando appunto quello che sua madre ha fatto nei campi di concentramento, che messaggio avrebbe per la comunità ebraica?
«Non basterebbe dire che provo dispiacere per la Shoah, dovrei dire qualcosa di più, molto di più, forse inesprimibile con le parole. Mia madre ha tormentato le donne ebree ad Auschwitz-Birkenau e per me è un pensiero insopportabile. Ogni volta che vedo un film sulla Shoah mi sento male, tanto più che si sa che la realtà era molto peggio».

Il 27 gennaio si celebra la Giornata della Memoria, che effetot le fa?
«Per molti anni per la Giornata della Memoria sono andata nelle scuole a testimoniare del nazismo, della guerra e della Shoah. Ho spesso fatto ai ragazzi questo esempio: “Pensate per un momento che vi trovate a tavola con la vostra famiglia, mamma, papà, i fratelli e forse anche i nonni, e a un certo punto suonano alla porta e ci sono cani che abbaiano e poi buttano giù la porta ed entra un gruppo di SS che grida ‘schnell, preparate una valigia e in un quarto d’ora dovete essere giù in strada e salire sul camion”. Ad alcuni ragazzi venivano gli occhi lucidi anche solo a immaginare… Era successo a milioni di famiglie che da un momento all’altro vedevano violentata la propria vita. Più volte ne ho parlato con la mia amica scrittrice Elisa Springer, che, tradita da una spia fascista, venne arrestata nel 1944 insieme alla famiglia e deportata. Mi raccontò di come arrivarono le SS a Vienna nel loro negozio, di come buttarono giù la porta, di come tutto cambiò. La storia della Shoah, mia madre, la guerra, Hitler, è tutto in un grande angolo del mio cervello. Ne ho scritto tanto – forse anche per elaborare – ma oggi, a 85 anni, il peso è ancora tutto lì».

Lei vive a Bologna da molti anni: come mai venne Italia?
«A vent’anni ho fatto un viaggio in Italia, e a Verona ho conosciuto Elio, un ragazzo bolognese. Ho proseguito per Roma, ma al ritorno mi sono fermata di nuovo da lui. Sarebbero dovuti essere due giorni, ma Elio ha fatto di tutto perché io rimanessi con lui. Io non avevo una famiglia, mentre lui ne aveva una numerosa e rumorosa, che mi piacque e mi accolse. E così sono rimasta. Quel ragazzo è diventato poi mio marito, anche se ormai sono vedova da molti anni».

Lei ha un figlio. Che rapporto avete? 
«Purtroppo questo è un discorso amaro. Il nostro è un rapporto inesistente. Lui ha preso totale distanza dalla mia storia, e dalla mia vita, non ha mai accettato che mia madre fosse una criminale di guerra, come se vedesse in me qualcosa di lei, come se si vergognasse delle sue radici. Mio figlio ha preferito cambiare nome e cognome, non vuole avere nulla a che fare con me. Mi sento impotente dinnanzi ai suoi muri. Per il resto, questa è stata la mia vita».

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