Il regista iraniano Ali Abbasi nel suo terzo lungometraggio Holy Spider mette in scena una rilettura in chiave noir della reale vicenda di cronaca nera che ha scosse l’Iran nel 2000.  Saeed Hanaei, conosciuto come l’assassino ragno, uccide 16 prostitute nella città santa di Mashhad, professandosi tramite di una missione divina. La porta di accesso al caso viene fornita allo spettatore dalla protagonista del film, la giornalista Arezzo Rahimi, interpretata da Zar Amir Ebrahimi.

La veste cinematografica restituisce un teso confronto tra la giornalista e l’assassino, che riflette l’attualità critica di un paese come l’Iran, in cui un potere maschile integralista reprime ogni libertà di un femminile in lotta continua. Rhaimi si fa largo tra discriminazione e corruzione. Appena arrivata in città da Teheran, si mette sulle tracce del colpevole, mettendo a rischio la sua vita. Saeed, è invece un uomo disturbato, mostrato nella sua spaventosa quotidianità di padre di famiglia.

Holy Spider, una caccia all’uomo notturna e silenziosa

Una scena del film Holy Spider (2023)
Mehdi Bajestani nei panni del killer Saeed Hanaei in una scena del film Holy Spider (2023)

Il montaggio alternato sui punti di vista di inseguito e inseguitrice alimenta l’orizzonte d’attesa dello spettatore sul loro incontro, dal thriller noir della prima parte, si passa al genere del film di inchiesta con una panoramica sconcertante di una società imbevuta di ideologia religiosa. Rahimi e Saeed percorrono le stesse strade notturne di Mashhad dove solo qualche grido lontano rompe il silenzio.

L’unico elemento sonoro extradiegetico è l’incalzante leitmotiv metallico che segue il motorino del killer diretto verso la prossima preda. La macchina da presa segue il mostro nella sua tana mostrando senza filtri l’esecuzione di tre donne. Sono le vittime le altre protagoniste del film. Ombre tutte uguali sulla strada, vestite di nero, il foulard sulla testa, lo sguardo smarrito, la smalto e il rossetto rosso. Sono i dettagli ripresi a rendere giustizia a ognuna. Un morso lasciato su una mela, un piede, una schiena livida.

La regia di Ali Abbasi intesse una ragnatela

L’incipit del film illustra il modus operandi dell’assassino che verrà mostrato in seguito solo per frammenti. Dalla focalizzazione oggettiva su una delle vittime che da una stanza di casa sua, arriva in strada, poi nella tana del ragno, si passa al viaggio del motorino di Saeed verso il luogo in cui lascerà il corpo senza vita della donna.

 A questo punto con un movimento dal basso verso l’alto dell’inquadratura viene rivelata una panoramica della città di Mashhad di notte, in cui le luci disegnano quella che a tutti gli effetti sembra un’enorme ragnatela, il cui centro è il santuario dell’Imam Reza. E’ sull’immagine esplicativa della ragnatela che appariranno i titoli di testa.

Come fa il ragno con la sua ragnatela, l’assassino avvolge i corpi delle vittime nel tappeto del suo salotto. Un dettaglio morboso ricorrente che ritroviamo anche nell’agghiacciante finale, in cui la ragnatela si rivela essere anche simbolo di una tradizione patriarcale difficile da estirpare, consolidata negli edifici del potere, nelle società islamiche e tramandata da padre in figlio.

Eleonora Ceccarelli

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