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Le spiagge sono un affare, ma non per lo Stato

Un braccio di ferro lungo più di 15 anni. L’ultimo capitolo della lotta dei balneari nostrani contro l’applicazione, chiesta della Ue, della direttiva Bolkestein sulla concorrenza è andata in scena pochi giorni fa con i rilievi di Mattarella all’ennesima proroga alle concessioni demaniali prevista dal Governo. 

Parliamo di bandire procedure concorsual per la gestione di molti beni pubblici e di una direttiva che obbliga lo Stato italiano a mettere a gara concessioni balneari spesso assegnate decenni fa e rinnovate automaticamente per anni con canoni di affitto spesso irrisori. Una direttiva costantemente disattesa per la quale abbiamo ricevuto numerosi richiami da parte della Commissione Europea e che i Governi, non ultimo quello di Giorgia Meloni, hanno spesso schivato per non prendere in mano quella che viene vista come una vera e propria patata bollente. La destra, in particolare, ha spesso sollevato il pericolo di una sorta di “espropriazione” delle spiagge italiane da parte di potenti gruppi multinazionali stranieri in caso di messa a gara delle concessioni.  Ma ad oggi il vero danno alla collettività sembra più che altro la mancata riscossione di canoni adeguati di affitto e, talvolta, il mancato rispetto di vincoli ambientali e paesaggistici. E a pagarne gli effetti immediati siamo tutti.

Se le concessioni costano meno di una stanza in affitto

Per capire meglio quello di cui stiamo parlando dobbiamo capire la portata del fenomeno. Più della metà delle concessioni demaniali, concesse dallo Stato, sono destinate a un uso turistico-ricreativo, per l’esattezza il 58,6%.
 

All’interno di questo insieme sono state censite ben 15.514 concessioni balneari nel 2022 che si estendono su 54 milioni di metri quadri di suolo pubblico. Ma se parliamo di imprese balneari propriamente dette, il numero si riduce a 6592; le altre 10.443 sono concessioni che operano in altri settori come campeggi o hotel. Ma quanto rende questo settore? Su questa domanda il balletto delle cifre è considerevole. Uno studio del 2019 largamente contestato dai balneari, ne quantificava il giro d’affari a 15 miliardi di euro. Nuove stime lo attestano oggi su circa 2.1 miliardi di euro. Una cifra che tiene però conto del giro di affari dei soli stabilimenti balneari, e non di quello delle concessioni di alberghi, campeggi e complessi turistici, che avvicinerebbe probabilmente la somma al contestato studio del 2019. Il problema? Lo indica la Corte dei Conti ed è molto chiaro nel grafico sotto.

In media, dal 2016 al 2020 lo stato italiano ha incassato di meno di cento milioni di euro per anno per le concessioni balneari, un’anomalia su cui la Corte dei Conti ha strigliato più di una volta i Governi. Già, perché spesso gli appalti sono decennali e i canoni annuali pagati dalle imprese sono stati, almeno fino al 2021, inferiori a quelli di una stanza in affitto in una grande città. Un’elaborazione de La Voce.info, basata su dati del Ministero delle Infrastrutture ecc. ha rilevato che i tre quarti delle concessioni pagassero un canone inferiore ai 5mila euro l’anno nel 2020. Come ricorda Legambiente, nel suo ultimo report 2022, si assiste così a situazioni grottesche. Ad Ischia, in tutta l’isola, sono addirittura 52 i lidi che non arrivano a pagare 1.000 euro annui di canone, mentre ad Arzachena (Sassari) sono ben 41.

“Quella dei balneari è stata una categoria molto blandita dalla politica, sono 30 anni che le concessioni sono ferme. Il problema è poi che i canoni vengono fissati dai comuni, ma a riscuotere è lo Stato. Questo crea una sorta di disinteresse delle amministrazioni locali per le concessioni nella migliore delle ipotesi, Nella peggiore ci potrebbe essere anche l’interesse dell’amministratore locale nel favorire imprenditori legati al territorio con canoni bassi. E’ un cortocircuito che si può fermare facendo sì che i soldi investiti restino all’interno del territorio e vengano utilizzati, ad esempio, per la tutela ambientale” puntualizza Sebastiano Venneri, responsabile Turismo sostenibile di Legambiente.

Le cose sono parzialmente cambiate nel 2020, quando il Governo Conte II ha fissato a 2500 euro il canone minimo (a partire dal 2022) e in parte quest’anno quando il Ministero delle Infrastrutture ne ha annunciato il rialzo del 25% (portando il minimo a 3.377,50 euro), per la variazione dell’Indice Istat. Un annuncio che ha provocato l’immediata reazione dei balneari. Il tutto a fronte di un business che, come dimostrano gli studi di Legambiente e Nomisma, si sviluppa prevalentemente sul suolo pubblico. Insomma, le spiagge italiane continuano a essere un business redditizio per chiunque, tranne che per lo Stato.

Le spiagge italiane? Una questione privata

C’è una parola sulla quale le associazioni dei balneari insistono particolarmente: investimento. Gli esercenti si appellano al valore aggiunto apportato alle concessioni, dichiarando di aver valorizzato il suolo pubblico di cui usufruiscono. Va da sé che la messa al bando delle aree costiere vanificherebbe gli investimenti svolti in questi anni. In effetti, dal 2000 in poi, i servizi offerti negli stabilimenti balneari sono aumentati esponenzialmente. Sono proliferate nel tempo, alla classica gestione di spiaggia e ombrelloni, attività come: ristorazione, wellness, dotazioni sportive ecc. Circa un’impresa balneare su tre ha ampliato i servizi negli ultimi venti anni, ma il “core business” rimane sempre lo stesso, come evidenziato dal grafico sotto.

La gestione della spiaggia, ovvero del demanio pubblico, apporta ancora quasi metà del fatturato dichiarato dai balneari. E le concessioni sono aumentate in maniera significativa: solo negli ultimi tre anni l’incremento è stato del 12,5% e addirittura del 25% se si guardano gli ultimi dieci anni. Come ricorda Legambiente, solo la metà delle spiagge del Paese è ormai fruibile liberamente. Nella mappa sotto abbiamo impostato una mappa a gradiente, evidenziando le regioni più interessate dal fenomeno delle concessioni.

Come si evidenzia, ci sono regioni come Emilia Romagna, Campania e Liguria, in cui più di metà della costa è data in concessione e in assenza di norme nazionali che regolano l’accesso al mare o la presenza di spiagge libere, le situazioni diventano spesso paradossali. In alcune aree della Campania e del Lazio, come ricorda Legambiente, vengono addirittura installate delle cancellate per impedire al cittadino di accedere ad ampie porzioni di costa di demanio pubblico. Del resto, in assenza di una norma nazionale, sono poche le regioni italiane che prevedono una percentuale minima di spiaggia libera, tra queste Puglia e Sardegna che hanno la percentuale minima di arenili liberi da concessioni al 60%. Esempi “virtuosi” che si scontrano con la deregolamentazione di molte altre regioni.

Si arriva così al vero e proprio record di comuni come Pietrasanta o di Camaiore, nel lucchese, dove circa il 98% della spiaggia è affidata a stabilimenti e concessioni balneari o di Gatteo a Mare nella provincia di Forlì- Cesena dove la percentuale arriva addirittura al 100%. Ma la situazione non è inusuale in regioni come: Marche, Abruzzo, Liguria, Emilia Romagna.

Fare il bagnino? Si fattura 260mila euro 

Una dinamica che non si può dire abbia fatto benissimo nemmeno all’ambiente: “Trent’anni di proroghe hanno portato a favorire il gigantismo degli stabilimenti, una dinamica che a livello ambientale è disastrosa perché favorisce la proliferazione incontrollata delle strutture che spesso non sono adeguate a un contesto molto fragile come quello marino. Inoltre il cemento sulla costa favorisce il fenomeno dell’erosione costiera che è un vero e proprio dramma per il nostro Paese, si pensi che abbiamo perso milioni di metri quadri di spiaggia” osserva Venneri di Legambiente.

L’Italia è un’eccezione?

Sgombriamo subito l’equivoco: l’Italia non è l’unico Paese strigliato dalla Ue per la non applicazione della normativa Bolkestein sulle spiagge,  ma sicuramente costituisce un’eccezione, se si considera il combinato di mancata applicazione delle norme per la concorrenza e scarsa salvaguardia della tutela ambientale e del diritto di libero accesso alle coste. I paesi a noi più simili per vizi formali sono infatti Spagna e Portogallo. In entrambi i casi, ad esempio, se vengono soddisfatte alcune condizioni le concessioni possono essere rinnovate fino a 75 anni. Ma in Portogallo ad esempio si fa differenza fra licenze, che riguardano le spiagge e la relativa gestione, vale a dire lettini e ombrelloni e le concessioni, ovvero le costruzioni stabili di non facile rimozione. Nel primo caso la licenza è di soli 10 anni. Inoltre, concessioni e licenze vengono assegnate attraverso gare per le quali esiste però un diritto di prelazione da parte dei precedenti gestori, pratiche che inibiscono di fatto le procedure di concorrenza e che sono contestate dalla UE.

Nel caso della Spagna le spiagge sono definite “libere” e quindi non possono essere oggetto di concessione. È piuttosto la zona interna del demanio, quella che precede la spiaggia vera e propria, che può essere oggetto di autorizzazione all’”occupazione concessoria”. Dal 2013 è stato allungato il termine massimo di durata di queste concessioni ed è stata anche aggiunta la possibilità di trasmetterle agli eredi per mortis causa (cioè per morte del concessionario). Nonostante i vizi formali è presente sia in Portogallo che in Spagna il vincolo di tutela ambientale e il libero accesso delle spiagge.

La spiaggia di Palavas les Flots (Montpellier)-2

Le cose vanno diversamente in Francia dove ogni installazione fatta sulla spiaggia deve essere concepita in modo da poter permettere, alla fine del periodo di vigenza del rapporto, il ritorno dell’area allo stato iniziale. Ma non solo l’80% del litorale deve essere libero per legge da qualunque struttura, mentre l’accesso alle spiagge e il loro uso devono essere sempre liberi e gratuiti. E vanno diversamente anche in Grecia dove sono previste procedure di selezione che garantiscano imparzialità e trasparenza, in linea con la Direttiva Bolkestein, con eccezioni però previste per gli hotel di fronte alla spiaggia.

“L’Italia ha una sua peculiarità che non va sottovalutata, l’idea di ‘stabilmento balneare’ che conosciamo oggi nasce a Viareggio e la diffusione di queste imprese non ha pari in Europa, per ragioni storiche, culturali ed economiche, è una peculiarità italiana, l’anomalia è semmai che le procedure concorrenziali siano ferme da 30 anni – puntualizza Venneri che aggiunge- L’Ue non chiede aste, ma procedure di assegnazione trasparenti e concorrenziali. Queste procedure devono sicuramente tenere conto del lato economico e fissare dei canoni adeguati al bene che si usufruisce, cosa che dice perfino Briatore. Ma una volta individuato il prezzo di concessione la gara potrebbe basarsi, ad esempio, sulla qualità dell’offerta che deve tenere conto di parametri ambientali e di inclusività, come i servizi per le persone disabili. In questo modo davvero si svilupperebbe un valore aggiunto per l’intera collettività”.

E un esempio virtuoso c’è anche a casa nostra. È quello della Regione Veneto che, nel Mare Magnum delle diverse leggi regionali sul tema, ha deciso di mettere a gara alcune concessioni balneari già con una legge regionale del 2002 anticipando i tempi.

“Il Veneto ha scelto parametri virtuosi per alcune assegnazioni, ad esempio il fatto di essere plastic free o accessibili o il livello di investimenti sull’ambiente. Non sono arrivate le tanto temute multinazionali a rilevare i beni italiani, ma abbiamo avuto tanti imprenditori in grado di rimboccarsi le maniche e creare offerte all’avanguardia” osserva Venneri. L’augurio è che le nuove procedure, che prima o poi dovranno essere rese effettive, contemplino anche dei parametri ambientali: “ Dovrebbero premiare, ad esempio, chi utilizza materiali riciclabili, energie rinnovabili, chi non usa la plastica e chi tutela l’ambiente dove è installato, un ambiente che è per sua definizione molto fragile” conclude il responsabile di Legrambiente. In attesa del prossimo capitolo di una partita che assomiglia da anni a una vera e propria telenovela.

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