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Levi’s 501, che storia quei jeans

Tracey Panek ha il lavoro più bello del mondo. E ne è consapevole. Si capisce dalla passione con cui parla, dagli occhi che le brillano quando racconta di uno dei suoi speciali ritrovamenti, dalla cura e dall’amore con cui si infila i guanti bianchi quando deve tirare fuori dalla cassaforte un pezzo antico. La stessa cura e lo stesso amore che pone quando narra le storie che stanno dietro a ogni elemento recuperato, a ogni catalogazione, a ogni scoperta. 

Panek è Historian Director of the Archives di Levi’s, l’azienda che di fatto ha inventato i jeans come li conosciamo e che quest’anno ha un anniversario importante: i 150 anni dalla nascita dei 501, il modello più famoso, il Levi’s prototipico, quello che ha attraversato rivoluzioni culturali, stagioni politiche, crisi finanziarie. Quello che è diventato il capo di abbigliamento più riconoscibile e significativo della storia del costume, più ancora del tubino nero. Quello che è esso stesso storia del costume, e prima ancora storia di un Paese come gli Stati Uniti, dal momento che a ogni cambiamento stilistico, a ogni step evolutivo del design corrisponde una diversa epoca, fatta di eventi ma soprattutto di persone. 

Una sequenza di jeans 501 dal 1890 al 1996

Cayce Clifford

Una pubblicità vintage dei Levi’s 501

Cayce Clifford

Panek non è solo un’esperta che conosce alla perfezione ogni minima modifica apportata ai 501 e che te la sa catalogare temporalmente. È una vera e propria cacciatrice di storie. Una che va in giro per il mondo a cercare i capi più antichi in circolazione e torna a casa con un bagaglio di pura narrazione. 

Come la vicenda di Barbara Hunter Kepon: adolescente negli anni ’40, vive a San Gabriel, in California. Un’estate, in campeggio, scopre all’interno della miniera di Calico una stanza piena di jeans e ne prende il paio migliore. Li rattoppa e li indossa per un po’, finché non nota qualcosa di interessante sulla tasca e si rende conto di avere tra le mani un capo storico, che spedisce alla Levi’s accompagnato da una lettera. Datati 1890, grazie alla presenza dei bottoni per le bretelle e a una sola tasca (le duetasche e i passanti arriveranno nel 1922), i Calico sono tra i reperti più vecchi presenti nell’archivio, quando i jeans erano una tuta da lavoro – si chiamavano XX – che si indossava sopra ai vestiti. «Ho sempre amato la storia», racconta Panek. «In America ci sono arrivata da bambina, con mia madre e le mie due sorelle. La mia famiglia viene dalla Nuova Zelanda. Una delle cose che mia madre faceva quando eravamo giovani, la domenica dopo cena, era raccontare storie della sua vita laggiù. La mia passione per la narrazione arriva da lì».

Tracey Panek, Director of the Archives di Levi’s

Cayce Clifford

La storia di Levi Strauss stesso è quella dell’America. Arrivato nel nuovo mondo dalla Germania, nel 1847, giovanissimo, apre con successo a Manhattan una merceria all’ingrosso, poi nel 1852, alla fine della corsa all’oro in California, si trasferisce a San Francisco, dove insieme al sarto Jacob Davis incomincia a produrre jeans. Nel 1873 i due ottengono un brevetto per l’inserimento di rivetti metallici nei pantaloni da lavoro in denim al fine di aumentarne la durata nel tempo. È la nascita dei blue jeans. 

«Non è un caso che i 501 nascano nel West, un luogo in cui l’ethos è basato sull’indipendenza e sull’affermazione della propria identità», continua Panek. «Sono anche i valori con cui il marchio si è sempre identificato. Nel corso di questi 150 anni, i jeans sono stati pietre miliari. Qui a San Francisco sono sopravvissuti a un terremoto e a un incendio, oltre che alle due guerre mondiali. Diventano popolari negli anni Sessanta, quando San Francisco diviene l’epicentro del movimento hippie, così come più avanti lo sarà per la nascita del movimento per i diritti civili. Questo essere al centro delle controculture influisce sul marchio. I 501 diventano una tela per l’espressione individuale». 

Levi Strauss 

Mentre parla, Panek ne tira fuori da una cassaforte un paio. Sono quelli indossati da Steve Jobs durante la presentazione dell’Apple IIc nel 1984. «La presenza dei bottoni attaccati alla cintura interna dei jeans di Jobs per accogliere le bretelle ci permette di datarli», dice mentre mi mostra la foto dell’epoca: Jobs – in jeans e bretelle – è in piedi con in mano la tastiera Apple accanto a John Sculley e Steve Wozniak. 

Gli altri identificatori che aiutano a collocarli nella metà degli anni Ottanta sono l’insolito lavaggio utilizzato per la prima volta durante il periodo; un bottone sul retro che indica che i jeans sono stati realizzati a El Paso, in Texas; un’etichetta con indicazioni di lavaggio e taglia (vita 33/lunghezza 36) e cuciture sulle gambe anch’esse tipiche dell’epoca. Panek spiega di averli acquistati a un’asta e che provengono dalla villa di Jobs a Woodside, in California, la Jackling House. La casa con 12 camere da letto era stata costruita per il magnate del rame Daniel C. Jackling nel 1926. 

Il rame è anche il metallo utilizzato per i rivetti dei 501. Un’altra foto del 1998 al Macworld mostra Jobs appoggiato a un monitor Apple con il look che sarebbe diventato il suo stile distintivo: un dolcevita nero di Issey Miyake e, appunto, i Levi’s di cui aveva una scorta, omaggio dell’azienda. 

Steve Jobs con i suoi Levi’s 501 nel 1998.

New York Daily News/Getty Images

L’altro oggetto di cui Panek è orgogliosa è la giacca Menlo Cossack di Albert Einstein, indossata anche sulla famosa copertina di Time Magazine nel 1938. Einstein la scelse appena arrivato negli Stati Uniti, nel 1933, proprio come capo attraverso il quale fondersi nel tessuto culturale del suo nuovo Paese di adozione. Anche questa è stata acquistata a un’asta, nel 2016. Rimessa sul mercato nel 2019, con una riproduzione fedelmente duplicata cucitura per cucitura, era accompagnata da una replica della paletta n. 97 usata per fare l’offerta per lo storico capo. 

Un assaggio di quello che sarà più evidente con la collezione primavera/estate 2023 di Levi’s Vintage Clothing, una linea di abiti che replicano l’abbigliamento da lavoro della fine del XIX e dell’inizio del XX secolo, estratti dagli archivi e studiati sulla base di foto d’epoca. È anche questa la forza dei 501: a differenza di altri oggetti iconici – il cellulare, per esempio – nati prima per pochi e poi diventati popolari, i jeans fanno il percorso inverso. Da tuta da lavoro a divisa prediletta dai cowboy ai rodei fino all’abbigliamento amato da artisti, rivoluzionari, studenti, poeti, musicisti. E divi di Hollywood. 

Marlon Brando nel film Il selvaggio del 1953

Columbia TriStar/Getty Images

«Quella col mondo del cinema è una collaborazione organica», spiega Panek. Quando nascono gli studios, Levi’s c’è già. Quando i primi costumisti creano gli abiti per i film, Levi’s è lì. John Wayne li indossa nel suo debutto da protagonista in Ombre rosse del 1939. Marlon Brando li trasforma in una dichiarazione di coolness nel Selvaggio. Negli anni Cinquanta, Marilyn Monroe è una delle prime donne a sfoggiare i 501 in un film, La magnifica preda. Li ha anche nell’ultimo portato a termine, Gli spostati, diretto da John Huston, con Clark Gable, ambientato negli aspri paesaggi del Nevada vicino al Comstock, il sito di una delle scoperte minerarie più ricche del mondo, quella che scatenò la corsa all’argento nel 1850. La scena in cui Marilyn fa giardinaggio in jeans e camicia bianca senza maniche fece impennare le vendite. Purtroppo questi 501 non sono stati ancora rintracciati e non fanno parte dell’archivio. Ma quando lo saranno, si meriteranno sicuramente una speciale riedizione.

Brad Pitt in Thelma & Louise del 1991

LANDMARK MEDIA / Alamy Stock Photo

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