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Perché i signori delle armi ora investono sui profughi

Giovanni Aiello, Nicolò Giraldi da Bihać (Bosnia Erzegovina) 24 febbraio 2023 05:00

“Avete un’ora di tempo, non di più”. Il poliziotto spalanca le porte dei container dove vivono i migranti in attesa di partire. Dopo l’enorme incendio scoppiato più di due anni fa nel campo profughi di Lipa, gestito dall’International Organization for Migration, un’agenzia delle Nazioni Unite, la struttura è stata completamente ricostruita. Dentro a ognuna di queste grandi scatole di ferro dormono, stipate e in condizioni igienico-sanitarie a dir poco precarie, fino a sei persone. A volte anche di più.

È già trascorso un minuto da quando siamo dentro. Abbiamo solo un’ora per capire cosa sta succedendo lungo questa nuova frontiera dell’Unione Europea. Siamo scortati. Per parlare con chi vive qua bisogna seguire regole severe. Nella pratica la severità è piuttosto teorica, visto che il controllo viene attuato con altalenante creatività e la scorta ogni tanto preferisce girarsi dall’altra parte. Sono già passati altri sessanta secondi di questa “ora, non di più”. Dentro i primi due container non c’è l’ombra di un migrante. Ogni tanto capita che qualche gruppo parta per il game, il viaggio verso Trieste. Il terzo è quello buono, perché ci vivono due testimoni che conoscono tutti i retroscena di questa bolgia. Parlano inglese. Uno è indiano e l’altro afghano. Vogliono andare in Francia, dicono, ma dentro al campo di Lipa abitano rispettivamente da quattro e da sei anni.

Un ospite nel campo profughi di Lipa in Bosnia  (foto Giovanni Aiello-TriestePrima)-2

“Ho molti amici in Italia e a Trieste – esordisce l’indiano –. Li sento una o due volte la settimana. Quando si parte mi dicono quale strada è meglio fare”. La sensazione è che sia abituato a raccontare una specifica versione della storia e che abbia tentato di oltrepassare i confini più volte. Ma alla domanda se sia pericoloso percorrere la rotta fino all’Italia, risponde di non saperlo. Ufficialmente, lui e Irfah sono ospiti del campo, perché adesso fa troppo freddo per partire e perché la polizia croata li ha respinti tante volte. “In realtà sono trafficanti, accompagnano al game chi decide di partire e, contemporaneamente, fanno gli informatori della polizia”, dice un volontario che da anni è impegnato nella zona di Bihać. I minuti passano. Fuori comincia a nevicare. Chi conosce il meccanismo della rotta alimenta il suo moto perpetuo.

Violenze sul confine

Tutti i migranti che decidono di venire in Europa hanno infatti un debito. Così a quanti non riescono ad arrivare a destinazione e a trovare un lavoro per restituirlo, rimangono due possibilità: lasciare che la regia dell’organizzazione stermini la sua famiglia, oppure diventare a loro volta trafficanti e aiutare gli altri ad attraversare il confine. “Per questa ragione, non finirà mai. Non hanno alternativa – racconta Silvia Maraone di Ipsia, rete non governativa delle Acli che opera in Bosnia a favore dei migranti -. Se la politica dei visti è morta in tutto il mondo ricco, questa situazione durerà per sempre”.

“A piedi è gratis”, assicura Ali K. Z., giovane iraniano. Ma per un jungle game (così viene chiamato il viaggio a piedi) non si va né da soli, né senza soldi. C’è sempre qualcuno che decide quando e soprattutto chi parte. “I pakistani ti dicono 750 euro a testa per attraversare il confine, non è niente – dice l’iraniano -. Ma a un amico hanno chiesto seimila euro”.

I boschi al confine tra Bosnia e Croazia lungo la rotta balcanica (foto Giovanni Aiello-TriestePrima)-3

Lui racconta di aver cambiato idea dopo l’ennesimo respingimento violento da parte della polizia di Zagabria e, adesso, di voler solo aiutare “questa povera gente”. “Come ti chiami?”, gli chiediamo. Dalla tasca della felpa tira fuori un tesserino, di quelli utilizzati per entrare e uscire dal campo. Dà un’occhiata alla sua presunta identità stampata lì sopra. “Questo è il mio nome”, dice e lo scrive su un pezzo di carta che ci consegna. “Il sogno di tutti è arrivare a Trieste, man, una volta lì è fatta”, ripete ancora una volta.

Cosa fa la mafia pakistana

Chi non finisce nelle grazie del passatore giusto, però, può entrare in un incubo. Come è accaduto al ragazzo iraniano. Qualche giorno prima di essere respinto, era andato a Velika Kladuša per incontrare un trafficante. «Hai un game? – gli ha chiesto -, è la mia ultima chance, altrimenti morirò». Paga e parte verso l’Europa. Si aggrega a una famiglia. Il sogno è distante qualche chilometro, ma la polizia lo respinge. Qualcuno scivola nel fiume, andando ad aggiungersi all’elenco delle tante persone annegate lungo la rotta balcanica negli ultimi anni. «Dogs, man, they used dogs to push back» ripete con rabbia l’iraniano, usano cani. Dice di essere stato derubato: “Questa gente è come la mafia, hanno messo su una vera e propria industria”. C’è un circolo di soldi, nei Balcani. Soldi sporchi, che si muovono tra Islamabad in Pakistan, l’Europa e la Bosnia, con la complicità di sodalizi criminali. “I soldi sequestrati o se li tiene la polizia locale oppure li manda indietro a chi gestisce i campi. È un paradosso ma le persone pagano per il proprio soggiorno nel campo”, sostiene l’iraniano.

“Queste reti non si occupano solo del trasporto delle persone, ma nascono come altri traffici. La rotta balcanica segue la via che porta eroina e armi dall’Afghanistan al mercato centroeuropeo. Perché non si fa niente per fermare questa rete? Perché non si cerca di dare la possibilità al migrante di arrivare legalmente, concedendo loro un visto?”, chiede sempre Silvia. Velika Kladuša dista dal confine croato pochi minuti a piedi. Gli edifici che negli anni Ottanta hanno fatto la fortuna di Agrokomerc, industria alimentare capace di dare lavoro a migliaia di bosniaci, sono totalmente abbandonati. Nel periodo “caldo” della rotta diventano squat, rifugi improvvisati, per centinaia di migranti.

Uno dei rifugi di fortuna vicino al confine tra Bosnia e Croazia (foto Giovanni Aiello-TriestePrima)

“Qui tornano quando vengono respinti, è un luogo sicuro – racconta Roberta Nikši, del Refugee Jesuits Centre di Bihać –. Ma qui vivono anche trafficanti. Alcuni convivono assieme a donne del posto. Tutti girano con due cellulari. Arrivano da altre parti”. Velika diventa diventa l’ultimo step prima di affrontare il fiume, o la polizia: “Riconosci subito chi comanda – dicono i volontari che vivono nella cittadina bosniaca –, arriva lui, mette in fila il gruppo, dà ordini ed è sempre vestito meglio degli altri”.

Ecco chi sono i trafficanti che sfidano Salvini

La pallina da ping-pong che rimbalza da una parte all’altra del tavolo scandisce il tempo, all’interno del Social Cafè del campo di Lipa. “Avete ancora dieci minuti”, ci fanno cenno i sorveglianti. Arrivano altri migranti. L’iraniano continua a comportarsi da capo. Raccontano che si fa la barba ogni due giorni. “Devo essere sempre presentabile”, dice lui. Anche se è arrivato solo da qualche settimana sono in tanti ad ascoltarlo, qui dentro. “Chi vi ha fatto questo? Perché siete stati cacciati dal campo?”, chiede intanto a due siriani e un tunisino che la polizia ha sbattuto fuori da Lipa. Gli espulsi dormono al di là della rete, tra un mare di rifiuti di plastica e il rifugio di lamiera, ricavato in una sorta di malconcio retrobottega di un edificio che un tempo ospitava una specie di market. “Un turco ci ha preso il passaporto e il telefono, ci ha rubato tutto”, rispondono i tre. L’iraniano parla con loro. Qualche minuto dopo si avvicina a un poliziotto che, nel frattempo, ha osservato la scena.

“Cerco mille uomini”

Quando torna, l’iraniano mostra una patente inglese. “Dal 2009 al 2017 abitavo in Inghilterra”, continua a raccontare. Quella patente la considera la sua “legal card”, spiega, un documento regolare. Dalla tasca della felpa tira poi fuori una sorta di pass. Sopra ci sono alcune bandiere. “In Turchia mi avevano dato questo in un campo, sono le lingue che parlo, davo una mano”. Il nome è diverso da quello del tesserino di Lipa. Chi è H.? Sono loro i veri trafficanti? Quante vite ha l’iraniano? “Amico mio – urla a un giovane cubano – digli quanti soldi ti hanno rubato quei figli di p…”. Ci sono molte domande che si potrebbero fare, ma nei Balcani, si sa, non tutto ha una risposta. Fuori dal campo passa un gregge di pecore. Si muovono lentamente. Stanno attaccate le une alle altre. In Bosnia l’inverno è gelido e per sopravvivere bisogna saper stare in gruppo.

Oltre la guerra, i terremoti: chi parte verso l’Italia

“Ho parlato con tanta gente, gli ho detto venite a Bihać – conclude l’iraniano -. Ho bisogno di almeno mille uomini e che non nevichi. Marceremo sul confine e chiederemo indietro i nostri soldi alla polizia croata. Gli diremo di ridarceli indietro una volta per tutte. Possono spararci, ma vogliamo che l’Europa apra i confini”. La protesta sarà clamorosa, promette lui. Ma tra le vite disastrate dei trafficanti e degli schiavi che restano in silenzio, la nostra ora concessa dentro il campo di Lipa finisce qui.

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