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Superbonus: accuse, difese e bersagli sbagliati

Perché non convince quanto sostenuto dall’ex ministro dell’Economia, Giovanni Tria, sul Superbonus 110%

Il professor Giovanni Tria, già ministro dell’economia nel governo Conte 1, è solitamente una persona pacata nei commenti e non incline alle conclusioni trancianti. Ma sabato – intervenendo sul Sole 24 Ore – si è scagliato con inusitata durezza verbale contro il Superbonus con argomenti che meritano di essere analizzati in dettaglio.

L’avvio è programmatico e non lascia spazio a dubbi sulla natura dell’intervento perché leggiamo che “La “scellerata legge” del bonus 110 per cento accompagnato dallo sconto in fattura e cedibilità dei crediti di imposta è stata meritoriamente bloccata dal governo. Ora si tratta di provvedere rapidamente a salvare imprese e cittadini rimasti impigliati nel perverso meccanismo. Come quando si interrompe la somministrazione di una droga, si deve al contempo aver cura del processo di disintossicazione. Ma la storia non è ancora chiusa perché, anche tra coloro che plaudono al provvedimento, c’è chi dice “attenti a non buttare il bambino con l’acqua sporca”. Ciò vuol dire che non si è capito che non c’è alcun “bambino” da salvare e che c’è, semmai, da iniziare a buttare ancora molta acqua sporca accumulata dalla ormai quasi decennale politica dei bonus.”

I fronti d’attacco sono due: il periodo transitorio ed il passato, essendo il futuro della misura non più in discussione, poiché cancellato. Sulla gestione del transitorio ci limitiamo ad osservare solo che il Superbonus viene liquidato troppo in fretta. Ignorando e tradendo tutte le situazioni in divenire che sono state tradite da uno stop che avrebbe dovuto avere un periodo di “scivolo” prima di condurre al termine del beneficio. Così facendo, il governo ha gettato solo migliaia di famiglie ed imprese nel panico. Ma veniamo al passato, con riferimento al quale viene decisamente negata l’efficacia della norma e poi vengono negate tutte le possibili linee di difesa.

Una legge che ha consentito ai cittadini di spendere a totale carico dello Stato, senza neppure alcun incentivo a controllare la congruità e necessità della spesa stessa, è di per sé una legge truffa, al di là delle truffe scoperte dalla Guardia di finanza. È una truffa di cui lo Stato si è fatto complice a danno della generalità dei cittadini. Perché il peso che si è posto sul bilancio dello Stato può essere coperto solo in tre modi: debito pubblico (cioè della collettività) aggiuntivo, maggiori tasse che qualcuno deve o dovrà pagare, oppure una decurtazione di altre spese dello Stato, con danno di altri cittadini che ne avrebbero usufruito. Questo “buco” creato nel bilancio pubblico ha, quindi, avvantaggiato alcuni cittadini e alcune imprese ma è pagato o sarà pagato da tutti gli altri. Si tratta di una massiccia redistribuzione di reddito, per di più regressiva. Chi ha detto “spendete perché è tutto gratuito” ha detto quindi il falso e truffato i cittadini. Qualcuno paga, e come dice il vecchio detto “non esistono pasti gratis”. Ma dopo l’accusa, lasciamo pure la parola alla difesa.

Qui ci permettiamo di dissentire su tutto, tranne l’inizio. Ragionando come Tria, qualsiasi misura di maggiore spesa o minori entrate a favore di una ben determinata platea di cittadini – come sempre accade – sarebbe una “truffa”. Il punto su cui concordiamo è quello in premessa, e cioè la misura del beneficio al 110% che ha eliminato qualsiasi normale conflitto di interesse tra committente e fornitore delle opere e dei servizi di efficientamento energetico. Vien da chiedersi se, con il beneficio per esempio al 90%, il ricorso all’agevolazione sarebbe stato simile. Non disponendo di controfattuali attendibili, va però notato che il vero grimaldello che ha aperto le porte dell’agevolazione ad una enorme platea di contribuenti è stata la possibilità di sconto in fattura/cessione del credito, molto più della misura dell’agevolazione. Nella settimana scorsa il dottor Enrico Zanetti, commercialista ed attuale consulente del ministro Giancarlo Giorgetti, ha affermato in audizione parlamentare che il livello degli investimenti in edilizia finanziati dai bonus è salito da 25 a 75 miliardi annui, a partire dall’avvio del Superbonus. Chi non aveva capienza fiscale o, pur avendola, non aveva liquidità per finanziare i lavori, è improvvisamente stato catapultato nel paese di Bengodi. A nostro modesto avviso, Tria, nella sua accusa, manca i veri difetti e cioè in primis la errata previsione di spesa, “infortunio” in cui è incorso soprattutto il governo Draghi tra fine 2021 e l’intero 2022. Poi c’è l’insufficiente livello di controlli preventivi (ci voleva tanto ad imporre già nel maggio 2020, ma anche durante il 2021, la necessità di acquisire i documenti richiesti solo col decreto legge di qualche giorno fa, per consentire l’acquisto dei crediti in buona fede e quindi una circolazione controllata, senza responsabilità solidale col cedente?). infine, la necessità di gestire la misura con un plafond di spesa predefinito e quindi temporalmente limitato. Se vuoi dare uno shock anticiclico all’economia non lo fai durare 2 anni, almeno non al 110% di contributo. Perfino nelle svendite promozionali c’è scritto “fino ad esaurimento merce”. Giuseppe Conte e Roberto Gualtieri non ci hanno pensato. Ma veniamo a come Tria “smonta” la difesa.

una parte di questa spesa pubblica rientra sotto forma di maggiori tasse perché aumenta il Pil. Questo è vero, ed è vero per qualunque spesa pubblica che rappresenti un reddito per qualcuno, non è una caratteristica particolare del bonus 110 per cento. È quindi corretto dire che si deve guardare alla spesa al “netto” delle maggiori entrate, ma ciò non significa affatto che in questo modo si ripaga. Non si ripaga né nel breve né nel medio-lungo periodo, perché la ristrutturazione di una villetta a spese dello Stato non è un investimento che porta ad aumentare la produttività o la competitività dell’economia italiana, ma solo una droga con effetti di domanda di breve periodo sul Pil, anche con effetti inflazionistici. Oltretutto, ciò avviene in un momento in cui si discute se consentire aiuti dello Stato a investimenti produttivi industriali e sul fatto che l’Italia ha meno spazi fiscali per farlo di Germania e Francia perché abbiamo un alto debito”.

L’impostazione del problema andrebbe spostata più sulla verifica del cosiddetto “moltiplicatore fiscale” (ovvero la variazione percentuale del PIL generata da un incremento della spesa o riduzione delle entrate pari all’1 per cento del prodotto), come fanno tutti gli economisti, Bankitalia in testa. È questa la misura che conta, anziché un improbabile conto della serva tra uscite aggiuntive ed entrate aggiuntive. Perché, nell’ambito del vasto ventaglio delle soluzioni di politica economica, è preferibile che le decisioni di deficit del governo siano a favore di misure a più elevato moltiplicatore sul maggior numero di anni a venire. Nel caso di investimenti pubblici, ritenuti da Bankitalia ad elevato moltiplicatore, il PIL aumenterebbe sempre tra di 1,1/1,2 punti fino al quarto anno successivo. I dati di uno studio dello Fondazione Nazionale dei Commercialisti, stimano un moltiplicatore di 3 volte per la produzione e di 1,2 volte per il valore aggiunto. Dei dati tutt’altro che disprezzabili, considerando che si tratta di spesa pubblica per investimenti (privati) a “fecondità” prolungata nel tempo, e non di denaro regalato per farsi un giro al luna park (quello sì, destinata a “drogare” la domanda per una sera, facendo impennare anche i prezzi delle giostre!). Non dimentichiamo che ci sono numerose stime che concordano sul fatto che almeno 1/5 della crescita del PIL registrata nel 2021 e 2022 è imputabile al settore costruzioni, come documentato in dettaglio dall’Onorevole Alberto Bagnai in un suo recente intervento.

Seconda linea di difesa: il provvedimento non era scellerato perché ha contribuito in ogni caso a far aumentare il Pil e quindi ha contribuito alla ripresa economica. Vero nel breve periodo, ma qualunque massiccia spesa pubblica a debito fa aumentare il Pil nel breve periodo. Ciò non significa che si possa permettere ai cittadini di spendere tranquillamente, con lo stato che paga a debito a piè di lista, senza alcun limite se non quello posto dalla capacità dei cittadini stessi di organizzare questa spesa. Perché il debito qualcuno poi lo dovrà pagare, come chiarito sopra. Questa ovvietà ha come conseguenza l’effetto di preoccupare chi oggi sottoscrive il debito pubblico italiano, di contribuire in tal modo a mantenere tassi di interesse più elevati degli altri paesi europei (si chiama spread), e infine di creare incertezza nei cittadini per il futuro spingendoli a risparmiare di più. Tutto ciò deprime le aspettative di crescita. Se ciò non fosse vero perché dovremmo preoccuparci della crescita economica? Basterebbe che lo stato facesse debiti e finanziasse la spesa dei cittadini senza limiti (naturalmente fino a quando c’è qualcuno che sottoscrive il debito). Sappiamo che c’è chi la pensa proprio in questo modo. Qualcuno che ha letto male, ma molto male, Keynes.

In questo caso Tria centra il punto, avvicinandosi ai rilievi esposti all’inizio. Infatti la giustificazione di un moltiplicatore fiscale maggiore di 1, non è sufficiente per mantenere in piedi una spesa il cui ammontare eccede le previsioni. Non può esistere un accesso incontrollato alle finanze pubbliche di uno Stato – non perché lo Stato possa restare “senza soldi” come una famiglia o perché quel debito “prima o poi qualcuno lo dovrà pagare” (lo Stato non ripaga il debito, ma lo rende sostenibile!) – ma perché lo Stato deve governare i flussi di spesa e non subirli in modo incontrollato. Questo è il grande difetto del Superbonus, illimitato nelle risorse potenzialmente disponibili e, perciò, causa di grande incertezza per i conti pubblici con i conseguenti potenziali effetti di turbativa sugli investitori.

Ma Tria ne ha anche per l’ultima linea di difesa del Superbonus: C’è effettivamente una logica nella scelta di destinare spesa pubblica alla ristrutturazione di proprietà private, che così aumentano di valore, invece che a ristrutturare e migliorare l’efficienza energetica di edifici pubblici come scuole, ospedali e tribunali, aumentando così il valore del patrimonio pubblico. La logica sta nel fatto che questa seconda spesa richiede molto tempo per concretizzarsi perché richiede appalti pubblici e l’azione della Pubblica amministrazione. Se invece si dice a un cittadino di ristrutturare la sua casa “gratuitamente” perché paga lo Stato, questo cittadino la sera stessa chiama un’impresa e il giorno dopo fa un contratto per far partire i lavori. Ma di nuovo ciò accadrebbe per tutti i tipi di “bonus” che si basano sul principio di incentivare la spesa privata. Però nel caso specifico del 110 per cento non si incentiva l’utilizzo di risparmi privati per aumentare la spesa privata, come avviene quando lo Stato partecipa parzialmente alla spesa stessa per attivare un’azione anticiclica, ma molto diversamente si finanzia totalmente la spesa privata senza intaccare il risparmio privato. Nella sua semplicità sembrerebbe “l’uovo di colombo” di una politica di ripresa economica, ma non lo è. Al contrario è un meccanismo insostenibile finanziariamente e sommamente ingiusto. Il provvedimento è infatti regressivo nel senso che avvantaggia principalmente la parte meno bisognosa della popolazione ed è a carico di tutti i cittadini, come già sottolineato, anche di quelli più poveri che, anche se non pagano molte tasse, avranno a disposizione, come conseguenza, meno servizi e aiuti pubblici. Il paradosso è che a varare questa spesa di tipo regressivo è stato un governo che si dichiarava di sinistra ma che non ha avuto il coraggio di dire che, non essendoci gratuità, la si sarebbe dovuta compensare con maggiori tasse, che sono appunto progressive. O forse l’idea era di farle pagare dopo. Magari per iniziativa di un altro governo. O forse si trattava solo di incompetenza.

In questo caso, Tria centra uno dei rilievi esposti in precedenza. Quello della mancata compartecipazione del risparmio privato, ma poi conclude in modo non condivisibile e non coglie il ruolo decisivo del meccanismo delle cessioni/sconto in fattura. È vero che l’incentivo ai privati, anziché l’intervento diretto per la ristrutturazione dei beni pubblici, ha dato la possibilità di una rapida azione anticiclica ma andava coinvolto anche il risparmio privato, soprattutto per fasce di reddito medio-alte con abbondante risparmio da mobilitare, utilizzando percentuali inferiori al 110%. Ma è molto discutibile il giudizio di “insostenibile, ingiusto e regressivo” che ne consegue. Si può convenire sull’insostenibilità, per quanto prima detto a proposito del plafond illimitato e delle previsioni di spesa fuori controllo. Ma sugli altri due aggettivi, Tria non dà il giusto rilievo al fatto che proprio lo sconto in fattura ha consentito a chi aveva bassi livelli di reddito (quindi poche o zero imposte da compensare con i bonus) o comunque scarsa liquidità, di accedere a spese che altrimenti non avrebbe mai effettuato.

In sintesi, l’intervento di Tria – pur staccandosi dalla “tonnara” della propaganda in cui è affondato oggi il dibattito sul Superbonus – attacca l’agevolazione dal lato sbagliato e sfiora soltanto i punti deboli, che sono pure tanti.

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