È ormai divenuto molto alto il numero dei quesiti inoltrati all’Accademia della Crusca su temi legati al genere. In modo particolare la Crusca è dovuta intervenire sull’uso dell’asterisco, dello schwa o di altri segni che “opacizzano” le desinenze maschili e femminili; sulla possibilità per l’italiano di ricorrere a pronomi diversi da lui/lei o di “recuperare” il neutro per riferirsi a persone che si definiscono non binarie; sul genere grammaticale da utilizzare per un transessuale e sulla legittimità stessa di questa parola. L’Accademia della Crusca, in maniera puntuale e precisa, risponde, in modo puntuale, esaustivo e preciso, a tutte le questioni. Lo fa con un puntuale articolo che, qui, si riprende.
La questione della distinzione di genere
La questione della distinzione di genere, anche al di là della tradizionale opposizione tra maschile e femminile, scrive nel documento l’Accademia della Crusca, evidenzia una nota assolutamente positiva quella relativa alla circostanza che nessuno di coloro che ha fatto ricorso all’Accademia della Crusca si mostri “contrario al sessismo linguistico e rispettosa nei confronti delle persone che si definiscono non binarie, ma anche sensibile alle loro esigenze. E questo è senz’altro un dato confortante, che va messo in rilievo”.
Genere naturale e genere grammaticale
Scrive l’Accademia della Crusca che per impostare correttamente la questione è necessario affermare che:
- “il genere grammaticale è cosa del tutto diversa dal genere naturale” e che “il genere indica l’“appartenenza all’uno o all’altro sesso in quanto si riflette e connette con distinzioni sociali e culturali” (questa la definizione del GRADIT).
- il genere come categoria grammaticale non coincida affatto con il genere naturale.
- in italiano “non si ha una sistematica corrispondenza tra genere grammaticale e genere naturale. È indubbio che, in particolare quando ci si riferisce a persone, si tenda a far coincidere le due categorie (abbiamo coppie come il padre e la madre, il fratello e la sorella, il compare e la comare, oppure il maestro e la maestra), ma questo non vale sempre: guida, sentinella e spia sono nomi femminili, ma indicano spesso (anzi, più spesso) uomini, mentre soprano e contralto sono, tradizionalmente almeno (oggi il femminile la soprano è piuttosto diffuso), nomi maschili che da oltre due secoli si riferiscono a cantanti donne”.
- i cosiddetti nomi “di genere comune” non cambiano forma col cambio di genere, perché la distinzione è affidata agli articoli nei casi di cantante, preside, custode, consorte, coniuge (con cui molti di noi hanno familiarizzato attraverso la denuncia dei redditi, che parla ellitticamente di dichiarante e di coniuge dichiarante senza precisare i rispettivi sessi);
- sbaglia “chi (…) propone di far ricorso al neutro per rispettare le esigenze delle persone che si definiscono non binarie, citando il latino, non tiene presente da un lato che l’italiano, diversamente dal latino, non dispone di elementi morfologici che possano contrassegnare un genere diverso dal maschile e dal femminile, dall’altro che in latino (e in greco) il neutro non si riferisce se non eccezionalmente a esseri umani (accade con alcuni diminutivi di nomi propri) e neppure agli dei (…). D’altra parte, per venire all’attualità, scrive nel suo lungo intervento la Crusca, anche in inglese il rifiuto dei pronomi he (maschile) e she (femminile) da parte delle persone non binarie non ha comportato l’adozione del pronome neutro it, presente in quella lingua ma evidentemente inutilizzabile con riferimento a esseri umani, bensì l’uso del “singular they”, cioè del pronome plurale ambigenere they (…);
- nell’italiano standard il maschile al plurale è da considerare come genere grammaticale non marcato, per esempio nel caso di participi o aggettivi in frasi come “Maria e Pietro sono stanchi” o “mamma e papà sono usciti”. Inoltre, se dico “stasera verranno da me alcuni amici” non significa affatto che la compagnia sarà di soli maschi (invece se dicessi “alcune amiche”, si tratterebbe soltanto di donne). Se qualcuno dichiara di avere “tre figli”, sappiamo con certezza solo che tra loro c’è un maschio (diversamente dal caso di “tre figlie”).
- la stampa e la scuola hanno avuto e hanno tuttora un ruolo fondamentale nella costituzione della norma standard scritta. Non c’è dunque da meravigliarsi se alcune proposte di soluzione del problema della distinzione di genere abbiano riguardato, almeno in prima istanza, la grafia, più suscettibile di cambiamenti.
- in àmbiti molto precisi come la scrittura in rete e quella dei messaggini telefonici, si possano diffondere usi grafici particolari, spesso peraltro transitori; ma il legame sistematico tra grafia e pronuncia, così tipico dell’italiano, non dovrebbe essere spezzato.
La questione asterisco…
L’accostamento del femminile al maschile – scrive l’Accademia della Crusca – finisce spesso con l’allungare e appesantire il testo; (…) per evitare questo (…) ha gradualmente preso piede, in particolari àmbiti (tra cui la posta elettronica), l’uso dell’asterisco, che è andato progressivamente a sostituire la barra (già citata per candidati/e), il cui uso sembra ormai confinato ai testi burocratici. (…) Nell’àmbito di cui ci stiamo occupando l’asterisco, in fine di parola, sostituisce spesso la terminazione di nomi e aggettivi per “neutralizzare” (o meglio “opacizzare”; in questo forse si può intravedere un sia pur tenue legame con la penultima funzione prima indicata) il genere grammaticale: abbiamo così forme come car* collegh* e, particolarmente frequente, car* tutt*, probabile calco su dear all (che invece non ha bisogno di asterischi perché l’inglese non ha genere grammaticale né accordo su articoli e aggettivi).
E parlando cosa diciamo?
“Resta – scrive l’Accademia della Crusca – il problema dell’impossibilità della resa dell’asterisco sul piano fonetico: possiamo scrivere car* tutt*, ma parlando, se vogliamo salutare un gruppo formato da maschi e femmine senza usare il maschile inclusivo, dobbiamo rassegnarci a dire ciao a tutti e a tutte. Qualcuno ha proposto espressioni come caru tuttu, che a nostro parere costituiscono una delle inopportune (e inutili) forzature al sistema linguistico di cui si diceva all’inizio. Teniamo anche presente che nell’italiano tradizionale non esistono parole terminanti in -u atona.
… allo schwa
In alternativa all’asterisco, specie con riferimento alle persone non binarie, è stato recentemente proposto di adottare lo schwa (o scevà), cioè il simbolo dell’Alfabeto Fonetico Internazionale (IPA) che rappresenta la vocale centrale propria di molte lingue e di vari dialetti italiani, in particolare quelli dell’area altomeridionale (il termine, grammaticalmente maschile, è di origine ebraica). “A nostro parere – scrive l’Accademia della Crusca – si tratta di una proposta ancora meno praticabile rispetto all’asterisco, anche lasciando da parte le ulteriori difficoltà di lettura che creerebbe nei casi di dislessia”.
Le difficoltà sul piano grafico
Sul piano grafico va detto che mentre l’asterisco ha una pur limitata tradizione all’interno della scrittura, il segno per rappresentare lo schwa (la e rovesciata: ə, in corsivo ə, forse non di facilissima realizzazione nella scrittura corsiva a mano) è proprio, come si è detto, dell’IPA, ma non è usato come grafema in lingue che pure, diversamente dall’italiano, hanno lo schwa all’interno del loro sistema fonologico. L’uso dello schwa non risolve neppure certe criticità che abbiamo già segnalato per l’asterisco: per esempio, sarebbero incongrue grafie come sostenitorə e come fortə, di cui pure ci è stato segnalato l’uso anche al singolare. C’è poi il problema, rilevato acutamente da qualche lettore, che del simbolo dello schwa non esiste il corrispondente maiuscolo e invece scrivere intere parole in caratteri maiuscoli può essere a volte necessario nella comunicazione scritta.
Le conclusioni… dell’Accademia della Crusca
Complicatissime le soluzioni ma, certamente, l’Accademia della Crusca, come sempre, pone la soluzione migliore “Dobbiamo serenamente prenderne atto, consci del fatto che sesso biologico e identità di genere sono cose diverse dal genere grammaticale. Forse, un uso consapevole del maschile plurale come genere grammaticale non marcato, e non come prevaricazione del maschile inteso come sesso biologico (come finora è stato interpretato, e non certo ingiustificatamente), potrebbe risolvere molti problemi, e non soltanto sul piano linguistico. Ma alle parole andrebbero poi accompagnati i fatti”