Dop economy italiana: quanto vale?

Con il neologismo “Dop economy” si intende il sistema economico che, nel quadro complessivo dell’agroalimentare, è costituito da prodotti tipici contraddistinti da un’indicazione geografica (Dop, Igp, Stg). Quindi, si tratta di cibi la cui denominazione è legata a precise aree territoriali, che secondo le rilevazioni sono sempre più apprezzati, non solo nell’ambito dei consumi nazionali ma anche per le esportazioni. Ma in che misura questo settore sta assumendo un ruolo di primo piano nello sviluppo dei distretti agroalimentari italiani? E aumentare il numero delle denominazioni è auspicabile a prescindere o può avere anche risvolti negativi? Partendo dagli ultimi dati Ismea-Qualivita, approfondiremo l’ascesa e le conseguenze dell’economia legata a questi prodotti.

La Dop economy entra nel vocabolario

Di Dop economy si è iniziato a parlare nel 2018, quando Mauro Rosati, Direttore della Fondazione Qualivita, ha introdotto il 16° Rapporto Ismea-Qualivita sulle produzioni agroalimentari e vitivinicole italiane Dop, Igp e Stg (rispettivamente, Denominazione di origine protetta, Indicazione geografica protetta e Specialità tradizionali garantite). In quella presentazione, si faceva riferimento al consolidamento di questo ambito dell’agroalimentare come “volano dei principali distretti agroalimentari italiani”.

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Già in quella circostanza, rispetto ai valori economici, si evidenziava “una crescita costante nel corso degli anni, che non si è fermata neanche nei periodi di recessione del Paese”. A questo dato strutturale, è stato suggerito di “aggiungere un’ulteriore considerazione fornita da strumenti di indagine evoluti: ovvero una fotografia che evidenzia, benché con modalità variegate, come questi prodotti abbiano assunto un ‘ruolo nuovo’ all’interno dei territori italiani, diventando il baricentro di una crescita che non è solo economica”. 

Nel quadro della Dop economy, infatti, va considerato un sistema che nella sua complessità include anche altri ambiti e rappresenta un modello economico-produttivo portatore di valori – origine, autenticità, sicurezza, tradizione, ambiente e fattori umani – condivisi da operatori, Consorzi, istituzioni, comunità locali e cittadini. Tutto questo deve riflettersi in un apparato normativo a tutela dei marchi di qualità e in un sistema di controllo a garanzia di produttori e consumatori. Il legame con i territori, nel concreto, si esprime attraverso processi di sviluppo che interessano settori strettamente connessi con l’agroalimentare, quali turismo, ambiente, cultura e socialità.

Dopo essere stato ripreso da stakeholder e studiosi, il termine “Dop economy” è stato rilanciato dai media ed è entrato nel dibattito pubblico, fino a essere inserito, nel 2021, nel Vocabolario Treccani dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana.

Nel 2023 i prodotti a denominazione geografica varranno più di 20 miliardi

Secondo le stime, entro la fine del 2023 la Dop economy genererà un valore superiore a 20 miliardi di euro. L’ultimo rapporto Ismea-Qualivita (n. 20, dati 2021) fornisce una panoramica precisa sulle dimensioni e sull’andamento della crescita di questo ramo dell’agroalimentare italiano. Il 2021 ha visto raggiungere 19,1 miliardi (+16,1% su base annua), di cui 10,7 miliardi di esportazioni (+12,8%), dati che hanno spinto gli analisti a parlare di numeri record. La quota del comparto Dop e Igp, all’interno del fatturato complessivo del settore agroalimentare nazionale, è pari al 21%, un risultato che premia il lavoro di un settore che conta più di 198.000 operatori e 291 Consorzi di tutela.

Gli alimentari

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Nel dettaglio, il rapporto evidenzia che, nell’aggregato della Dop economy, gli alimentari hanno raggiunto 7,97 miliardi di valore (+9,7% su base annua e +26% nel decennio). Al consumo il comparto arriva a 15,82 miliardi (+4,5% su base annua), mentre continua anche nel 2021 la crescita dell’export, con 4,41 miliardi di euro (+12,5%), il doppio rispetto al 2011 (+99,6%). I principali mercati per le nostre eccellenze si confermano Usa, Germania, Francia, Regno Unito e Spagna.

Con un valore alla produzione di 4,68 miliardi di euro, i formaggi rappresentano il 59% dei cibi Dop e Igp, mentre i prodotti a base di carne valgono 1,95 miliardi (25%). Interessante l’evoluzione del mercato dagli aceti balsamici, che vale 407 milioni, con un forte recupero dopo la frenata dovuta alla pandemia. Gli ortofrutticoli (384 milioni) crescono nei volumi, ma con valori non omogenei in termini economici; crescono comunque ortaggi (+22%), frutta in guscio (+22%), frutta estiva (+7%), pomodori (+25%) e insalate (+2%).

Si conferma il mercato della pasta (246 milioni), con quella di Gragnano Igp che è tra le prime dieci denominazioni geografiche italiane in ambito alimentare. A spiccare è soprattutto la crescita dei prodotti da forno e pasticceria (+22,3%), che raggiungono 100 milioni di valore. Infine, risultano soddisfacenti anche i dati delle carni fresche (+6,9%, 98 milioni) e degli oli di oliva (+27,9%, 91 milioni).

I vini

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Ottimi risultati fa registrare anche il settore vitivinicolo italiano Dop e Igp, con 27 milioni di ettolitri di vino (+10,9% su base annua) imbottigliati nel 2021. A fronte di una crescita di circa 11 punti percentuali delle quantità complessive, in termini economici gli aumenti valgono quasi il doppio. La produzione sfusa, infatti, vale 3,85 miliardi (+19,1%), mentre il vino imbottigliato supera gli 11,16 miliardi (+21,2%). Notevoli anche i progressi nelle esportazioni, che toccano 6,29 miliardi (+13% su base annua e +74% nel decennio), con una decisa ripresa delle vendite fuori dall’Unione europea, partendo dagli Usa (+17,6%), primo mercato di destinazione con 1,58 miliardi di euro, seguiti da Germania, Regno Unito, Svizzera e Canada. Sono in particolare gli spumanti (+25%) a essere sempre più apprezzati fuori dai confini nazionali.

Gli incrementi registrati si devono specialmente ai vini Dop (+22%), seguiti da quelli Igp (+16%) e con le grandi denominazioni italiane a spingere la crescita dell’intero settore.

Tante eccellenze da proteggere e valorizzare

In occasione della presentazione del 20° Rapporto Ismea-Qualivita, lo scorso febbraio, il Ministro dell’Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste Francesco Lollobrigida ha dichiarato che “grazie alla distintività e alla tradizione delle nostre produzioni, il Made in Italy si dimostra vincente. È mia ferma intenzione proteggere le nostre eccellenze, patrimonio della nostra comunità nazionale, e contrastare in ogni sede qualsiasi produzione che rischia di spezzare il legame millenario tra agricoltura e cibo”.

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Durante l’evento – organizzato dalla Fondazione Qualivita, in collaborazione con Origin Italia, Csqa, Agroqualità e Ipzs – il direttore generale Crea Stefano Vaccari ha sottolineato che “le Indicazioni geografiche sono il pilastro dell’economia agroalimentare italiana, grazie alla costante innovazione e alla sempre maggiore sostenibilità ambientale e sociale delle produzioni”.

Del resto, l’Italia può vantare 845 produzioni a indicazione geografica – ai 319 prodotti alimentari si sommano 526 denominazioni vitivinicole – prima nazione al mondo per numero di filiere Dop, Igp e Stg, seguita da Francia (698), Spagna (349), Grecia (261) e Portogallo (184). Nel corso del 2022, nel nostro Paese sono state registrati 3 nuovi Igp (Lenticchia di Onano, Lazio; Finocchio di Isola Capo Rizzuto, Calabria; Castagna di Roccamonfina, Campania) e 1 Stg (Vincisgrassi alla Maceratese).

Dop economy: le innovazioni tecnologiche si sposano con le produzioni tradizionali

Nel contesto produttivo contemporaneo, dove l’attenzione per la sostenibilità è sempre più importante, anche le filiere dei prodotti tradizionali e di antica origine si stanno adeguando, nell’impegno per ridurre il loro impatto ambientale. I consorzi che rappresentano la Dop economy, infatti, da tempo mirano a migliorare i metodi di produzione in senso ecologico, senza intaccare i caratteri distintivi dei cibi. Sul miglioramento genetico, ad esempio, stanno lavorando le filiere dell’olivo e quelle vitivinicole, e lo stesso fanno quelle della frutta e degli agrumi. Inoltre, il consorzio del San Daniele ha trovato un modo per gestire in maniera circolare il sale, trasformandolo da elemento di scarto a risorsa, mentre invece il Consorzio di tutela della Finocchiona Igp ha aderito al progetto “Api sentinelle”.

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La ricerca, nella quale il Crea è coinvolto direttamente, riguardano anche i formaggi, ad esempio con il progetto “Newtech”, avviato per combattere la contraffazione nelle produzioni Dop. A queste iniziative, si accompagnano quelle incentrate sulle innovazioni digitali, con lo sviluppo di sistemi di supporto e ottimizzazione della gestione fitopatologica, tecnologie già utilizzate e in via di perfezionamento per le colture fuori suolo.

Infine, oltre alle innovazioni tecnologiche citate, tra le tendenze evolutive della Dop economy nel comparto cibo emerge un’attenzione crescente verso il packaging, il cambiamento climatico e gli stili alimentari dei consumatori. Nel settore vitivinicolo, l’interesse è rivolto anche alle nuove designazioni in etichetta, come abbiamo visto di recente, ma anche ai contenitori alternativi, all’imbottigliamento nella zona di produzione e a nuovi parametri altimetrici per la produzione.

Un’eccessiva proliferazione delle denominazioni di origine può essere controproducente

Dopo aver considerato i dati più che positivi della Dop economy italiana, è utile riflettere anche sui possibili rischi che un eccesso di marchi territoriali può causare.  Come abbiamo visto nei nostri approfondimenti, in particolare occupandoci del marketing dei prodotti tipici con il professor Alberto Grandi e con Edoardo Armenio, l’aumento incontrollato delle denominazioni di origine può nuocere alle produzioni e alla credibilità stessa di questi istituti. La tutele di origine, di per sé positiva, talvolta rischia di essere asservita a logiche particolaristiche, riducendosi a concessioni da parte della politica a basi territoriali, in cerca di strumenti di valorizzazione commerciale. Analogamente, anche disciplinari di produzione troppo permissivi non giocano a favore di ciò che si vorrebbe proteggere. In ambito vinicolo, ha puntualizzato Armenio, “negli anni si è osservata una proliferazione di Dop oggettivamente poco significative, che attribuiscono denominazioni di origine a prodotti in realtà privi di autenticità. Oppure, capita di riscontrare, all’interno di una Dop, la presenza di vini eccessivamente differenti da un punto di vista organolettico”. In questo modo, si genera confusione e sovrapposizione, sottraendo credibilità ai prodotti Dop. 

In sostanza, non sono concetto e funzione della denominazione a essere sbagliati, ma lo è l’idea di volerle sfruttare solo a fini commerciali, una strategia che a lungo termine finisce per danneggiare l’impianto stesso delle tutele di origine. È fondamentale, pertanto, che questi strumenti siano utilizzati solo in modo appropriato e scrupoloso.


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