Essere una giovane imprenditrice e aprire una galleria di art design nel cuore di TriBeCa, New York, non è certo una cosa da tutti. Ma per avverare questo grande sogno – e vincere questa sfida – Jacqueline Sullivan ha trovato il linguaggio giusto e inedito, un’estetica propria quanto collettiva, e di certo ha le idee molto chiare. «La galleria era un mio sogno da molto tempo. In un mondo di enormi produzioni industriali e seriali, ho voluto affrontare questo progetto con il desiderio che fosse significativo per le persone, non frivolo. Le arti decorative e il design raccontano storie incredibili, non solo personali, ma anche dei momenti storici in cui sono state prodotte, usate, pure maltrattate: danno il quadro di una storia umana che trovo affascinante», risponde Sullivan.
Nel suo passato ha collezionato una serie di esperienze professionali significative nel mondo delle gallerie e dei musei, con lavori al Whitney Museum, al Cooper Hewitt e nello studio di Charles de Lisle. Poi il coraggio della scelta: prendere la strada dell’indipendenza, aprendo la propria galleria e mettendo in scena il suo personale approccio alle arti e al design. Una volta trovato lo spazio, un’ex fabbrica tessile in disuso nel cuore del quartiere di TriBeCa, Jacqueline lo mette nelle mani del suo amico progettista Nick Poe. L’involucro è in buone condizioni e l’architetto ne conserva lo spirito dei loft tipici del quartiere, aggiungendo dettagli che donano contemporaneità e una nuova atmosfera all’ambiente, come piastrelle e infissi anni Venti, elementi in acciaio e scaffali traslucidi. Understated e sofisticata, la galleria di art design di Jacqueline Sullivan riverbera ora l’identità della sua fondatrice e del programma della galleria.
Arriva finalmente l’opening, **Substance in a Cushion **è la mostra che fa riferimento a una poesia contenuta nell’amato volume Tre esistenze di Gertrude Stein. Così come nel libro, anche la collettiva offre uno sguardo fresco e inedito su oggetti di uso quotidiano, a tratti anche banali, e così la materia diventa sostanza ma anche “matter”, assume nuovo significato. I designer sono scelti con passione tra le pieghe della creatività internazionale, in esposizione ci sono le lampade in carta di Christian Hammer Juhl e Jade Chan (rispettivamente di Copenaghen e Singapore), i tessili di Grace Atkinson (di Parigi), i vasi di Valentina Cameranesi Sgroi (di Milano), e molti altri.
Jacqueline Sullivan non si limita a dare un palcoscenico ai nuovi volti e talenti del design internazionale, ma offre una prospettiva più ampia sulla storia del design inserendo nella sua narrazione anche referenze storiche importanti: espone anche una sofisticata ricerca di pezzi di maestri del design italiano e internazionale, da Gaetano Pesce fino ad Archizoom. E il catalogo della mostra, ancora una volta, è realizzato come un’opera collettiva da parte di amici creativi. la mostra successiva, If I did, I did, I die, attualmente in corso, è una personale della designer-scultrice italiana, di stanza a Parigi, Beatrice Bonino. La mostra presenta oltre venti opere, tra sculture, sedute ed esercizi di esplorazione materica, che indagano le nozioni di effimero e di memoria, le idee di fissaggio – chiusura, apertura e le tensioni insite nella natura di materiali apparentemente disparati, quelle stesse tensioni presenti dentro di noi.
«Questa galleria fa parte del mio essere. Mi fa piacere che tu abbia usato la parola “intima”: voglio che le persone si sentano accolte, aperte alla discussione e parte attiva di questo progetto, che parla di artigianato, di amore, di interiorità, di esteriorità, di cura, di noncuranza, di macchie, di tutto il resto; parla di una vita che vale la pena di essere vissuta».